Inizia il concerto dalla platea, invece che dal palcoscenico, come tutti farebbero. Un modo, forse, per ribadire che dalla strada viene e che in strada resterà, non importa se ha appena registrato un nuovo album e lo sta presentando con una data full band a teatro. 

Sbuca dalla platea, da solo con la sua chitarra acustica, rigorosamente non microfonata, e suona “Le chiavi di casa mia” che è il brano che tre anni fa lo fece conoscere in Italia e che diede il via all’avventura di Soltanto. 



Man mano che il pezzo procede si avvicina al palco e poi, con l’ingresso della sua band, si può dare inizio al concerto vero e proprio, per presentare l’uscita di “Skye”, il suo nuovo lavoro in studio, che esce proprio il giorno stesso di questa serata. 

Una storia d’amore finita, sei anni fa, aveva funto da detonatore ad una decisione che probabilmente covava da tempo: partire sulla la strada, armato solo della propria chitarra, girare l’Europa suonando le canzoni di altri e scriverne di proprie. 



In poche parole, vivere come un busker, il musicista da strada che all’estero conoscono bene (lo ha reso ulteriormente famoso il film “Once”, interpretato da Glen Hansard) e che in Italia era ancora visto come una sorta di vagabondo, forse un po’ molesto. 

E se le cose sono cambiate, è anche merito suo, come mi racconta nella bella chiacchierata che abbiamo fatto nella sede di “Parole & Dintorni”, l’ufficio stampa che da pochissimo ha iniziato a promuovere il suo operato. 

Avevo scoperto Matteo Terzi proprio tre anni fa, quando da poco tornato a Milano, la sua città, aveva ripreso a suonare e stavano nascendo le canzoni che poi sarebbero entrate su “Le chiavi di casa mia”. 



Proprio qui avevo raccontato il release party di quel disco, un lavoro nato grazie al crowfunding, con una campagna che in pochissimo tempo aveva raccolto più del doppio della cifra che era stata prefissata. 

Un fenomeno di assoluto valore, che ha generato consensi trasversali a volte così rapidi ed ampi da sembrare irreali, in un mondo musicale dove l’usa e getta è di casa. 

Merito senza dubbio di una qualità di scrittura altissima, capace nello stesso tempo di risultare appetibile per tutti i palati (leggi, fa cose artisticamente elevate ma è nello stesso tempo sufficientemente radiofonico) e di un’attitudine “down to earth” assolutamente stupefacente, una facilità nell’incontrare le persone e nel farle sentire a proprio agio che gli ha giovato nelle strade d’Europa ma che, soprattutto, lo sta aiutando ora che si sta confrontando con quello che potrebbe anche essere chiamato “successo commerciale”. 

Partiamo da “Skye”: lo sto ascoltando ormai da una decina di giorni e trovo che sia un lavoro molto più maturo a livello di scrittura e anche più serio nelle atmosfere, nei testi, quindi molto più drammatico, si sente che si respira un’atmosfera più “adulta”, passami il termine. Che è una cosa particolare perché, a pensare alla strada che hai fatto, al percorso che ti ha portato alla decisione di scrivere canzoni, il primo disco suona molto più spensierato, paradossalmente. Nel senso che uno si aspetterebbe che l’aver trovato una tua dimensione in questi anni ti abbia portato a fare un disco più sereno. Invece non sembra così…

Sono completamente d’accordo con questa tua lettura e provo a dirti la risposta che ho provato a darmi io. Nonostante le mie scelte, il mio viaggio del 2010, ancora non avevo messo a fuoco tutte le motivazioni che mi avevano portato lì, non avevo affrontato veramente tutto, un tutto che comprende anche una buona parte di dolori e di demoni interiori. Il primo disco suonava spensierato e io sicuramente l’avevo vissuto così, semplicemente perché ci sono delle fasi nella vita che ancora non si riescono ad affrontare. Invece poi, gli ultimi due, tre anni di viaggio, quelli che ho vissuto dopo il disco, sono stati anni in cui ho lavorato molto su queste cose, sentivo che era arrivato il momento di affrontare quello che avevo dentro. Di conseguenza molte canzoni, molte cellule di scrittura sono nate in viaggio e sono rimaste aperte per diverso tempo. Finché, arrivato quasi per caso sull’isoletta di Skye, in Scozia, mi sono messo lì ed è arrivato, in maniera molto naturale, il modo per dare il compimento a tutti questi pezzi. 

 

Quindi si potrebbe dire che il primo disco sia stato una sorta di catalizzatore per arrivare ad una nuova verità sul tuo vissuto precedente…

Guarda, ti racconto un episodio che lo fa capire bene: la canzone con cui si apre “Skye”, “Tutta la vita davanti”, è nata il giorno stesso in cui sono andato in stamperia a ritirare le prime copie di “Le chiavi di casa mia”. Tutto bello fiero me lo sono portato a casa, con l’idea di ascoltarmelo per tutto il pomeriggio. Me lo sono ascoltato cinque, sei volte di fila ed è successa una cosa strana: io ero convinto di aver parlato in tutte le canzoni del viaggio che avevo intrapreso, della drammaticità delle scelte che mi avevano portato in strada, ma mi sono accorto, durante quel pomeriggio, che in realtà non c’era nulla. C’erano gli incontri, c’erano le emozioni, ma non c’era davvero nessun racconto di come fossi arrivato lì, di che cosa mi avesse portato a fare la scelta che ho fatto. Così, avendo realizzato questa cosa, la prima volta che ho preso la chitarra in mano è nato il primo embrione di “Tutta la vita davanti”. Che poi è nato spensierato, ci ha messo un po’ a trovare la sua dimensione attuale. Ecco, questo pezzo è un po’ il simbolo di quello che dicevi tu, che è una cosa che io condivido in pieno. 

 

Credo che tu in qualche modo rappresenti un’eccezione nel panorama musicale italiano. Ci sono tanti artisti giovani che sono usciti con un disco e che provano a fare musica. C’è tanto disagio generazionale nelle loro canzoni ma ho come l’impressione che non ci sia molta fame, se capisci quel che intendo. E’ tutta gente, con alcune eccezioni, che fa musica come hobby, nel senso che ha già deciso che non arriverà da nessuna parte o che più semplicemente non ha grande ambizioni e porta avanti quel che gli interessa senza troppi problemi. Ci sono tanti ragazzi che fanno musica come passatempo, senza quella voglia rabbiosa di farcela e di spaccare il mondo che nel mondo del rock potevi trovare fino a, non so, forse agli anni ’90. Probabilmente il Grunge è stato l’ultimo fenomeno di questo tipo, credo. Oggi mi pare che tutti i musicisti, anche bravi, per carità, siano un po’ seduti. Tu invece hai rinunciato a tutto, hai preso e sei partito, fregandotene di come sarebbe andata. 

Sì è vero. Ho voluto fare questa esperienza di lasciare tutto, gli appigli sicuri, di trovarsi in una situazione in cui potevo mantenermi solo con quello che mi avrebbe dato il viaggio. E tra l’altro non sapevo neppure che la musica di strada avrebbe potuto darmi da vivere! Tanto è vero che quando sono arrivato a Lione ho cercato lavoro nei cantieri, visto che avevo già avuto esperienza come muratore. Ho messo da parte un po’ di soldi mettendo giù pavimenti e per qualche giorno ho fatto quello. Poi per carità, suonavo e cantavo già, avevo il sogno di andare s suonare in strada però non è stato così automatico farlo, ho dovuto superare certe paure. Quindi la chitarra me la sono portata dietro proprio come compagna di viaggio: mi avrebbe aiutato ad incontrare le persone e poi a superare le mie paure, a cercare di fare quella cosa che desideravo fare da tempo. Quella fame lì di cui tu parli, è sicuramente la mia fonte di ispirazione, la cosa che mi ha sempre spinto a non abbattermi mai. Quando ricevevo dei no, quando le cose andavano male, io non ho mai pensato neppure per un istante di smettere di fare musica, che quella non fosse la mia strada. Mi alzavo al mattino, magari senza sapere dove sarei andato a dormire la sera, senza sapere se avrei trovato i soldi per comprarmi un panino al supermercato, però mi alzavo e sapevo che avevo voglia di suonare per strada, di confrontarmi con quella cosa lì, anche se avevo i miei demoni per la testa. 

Poi ad un certo punto ho capito che mi mancava casa e sono tornato a Milano, però ormai io quella scelta l’avevo fatta, durante quel viaggio ho capito che volevo la musica, che il mio posto nel mondo era negli angoli delle strade. Anche il fatto di essermi licenziato, era perché pur avendo un lavoro, mi sentivo di navigare a vista, sentivo che non era quello il mio posto nel mondo. Ed è stato utile partire: sono andato via anche con l’idea che casa mia non mi bastasse, che non mi potesse dare abbastanza, e invece mi sono accorto, proprio andando via, che comunque quello era il mio posto. E così sono tornato a Milano e ho ricominciato a fare musica per strada. E guarda che non è stato facile: oggi è una cosa normale, se hai voglia di farlo puoi andare e tendenzialmente lo fai, è bello che sia così. Però quando ho iniziato io non c’erano milanesi o italiani che avevano fatto quella scelta: i musicisti di strada erano tutti mendicanti oppure andini, quelli con i flauti e i vestiti tradizionali. Anch’io, nel mio piccolo, ho contribuito: tanti che volevano iniziare si sono rivolti a me e poi nel giro di pochi anni le cose sono cambiate tantissimo, anche dal punto di vista legislativo.

 

Suonare a Milano, per te che ci sei nato e ci vivi, dev’essere molto particolare… 

E’ stato tosto all’inizio, credimi: finché lo fai in Europa, dove non ti conosce nessuno e il giorno dopo te ne sei andato via, è un conto; a Milano invece ti vai ad esporre con chi ti conosce, anche con tanti musicisti. Che per assurdo erano anche gli unici che mi guardavano male! Anche se adesso molti di loro hanno preso coraggio e si sono messi a fare la stessa cosa. Perché poi il paradosso è questo: erano i musicisti ad avere paura della musica di strada, mentre invece poi, anche vedendo me, hanno avuto il coraggio di esporsi. 

 

Forse questo è successo perché tu, pur rimanendo un musicista di strada, sei anche stato in grado di coniugare entrambe le dimensioni. Suoni in giro ma hai fatto anche concerti nei locali, adesso presenterai il nuovo disco a teatro, a breve partirai per un tour europeo esibendoti su un palco ricavato dallo stesso furgone su cui viaggerai… insomma, non hai paura di incrociare le due dimensioni. Per molti magari è più difficile perché vedono il suonare in strada come un ripiego triste, un segno che la loro carriera non è andata come avrebbe dovuto… 

Sì è vero, per molti è sicuramente così. Ma per me è diverso: io sono un musicista di strada, io vado lì per quello, per quell’emozione di intercettare per un attimo lo sguardo di un passante che fino ad un istante prima non ti conosceva, con cui non c’era nessun rapporto, intercettarlo e vedere nel suo sguardo che lui, mentre è lì ad ascoltarti, aveva esattamente bisogno di quella cosa lì. In strada prevalentemente suono cover, ma che sia una cover o una canzone mia, quello che cerco è questa esperienza ed è un qualcosa che non puoi trovare in un club. Poi contemporaneamente ho sempre sentito l’esigenza di portare avanti un mio progetto, di scrivere le mie canzoni anche se non mi sento un cantautore. Vengo dal brit pop, da gruppi come Oasis o Coldplay, ho sempre scritto le mie canzoni ispirandomi a quello. E quindi ho sempre cercato di coniugare le due dimensioni, ben sapendo che andando a suonare in un club, avrei fatto delle cose sporadiche, che pure volevo fare ma che non sarebbero mai andate a costituire la mia normale dimensione. Tanto è vero che non mi sento mai a mio agio sul palco di un locale. Anche se poi è assurdo, se ci pensi, perché in strada ti passano davanti centomila persone ogni minuto, è dispersivo, invece in un locale la gente è venuta lì per te, che cosa c’è da temere? Invece io mi sento molto più a mio agio in strada. Non vorrei essere frainteso, comunque: ho proprio voglia di suonare venerdì a teatro, ci ho messo tre anni a scrivere queste canzoni, ci siamo preparati benissimo per questo concerto, abbiamo deciso gli arrangiamenti in ogni dettaglio, i colori, i vestiti da mettere addosso a queste canzoni e io le voglio presentare così, non solo con chitarra e voce. Allo stesso tempo, però, so che è una cosa che non accadrà sempre. Infatti, come hai già anticipato, ho in programma di andare in giro in trio, con Andrea Brussolo (chitarra) e Bruna Di Virgilio (violoncello), vale a dire la stessa formazione con cui ho suonato a Bruxelles nel concerto anteprima del 14 febbraio. 

 

Senti, come è stato lavorare in studio per questo disco? Ho notato che hai cambiato quasi tutti i musicisti e come ti ho già detto all’inizio, c’è proprio un altro livello di produzione e di arrangiamento. Che esperienza è stata per te? 

Il disco è stato prodotto da Diego Baiardi che non aveva mai fatto una produzione esecutiva prima d’ora, aveva fatto solo produzioni artistiche. Quando abbiamo iniziato a lavorare al disco non si sapeva se avremmo trovato o meno un’etichetta per cui è stato molto bello che lui ci abbia creduto al punto da volerlo fare, senza sapere se e come sarebbe uscito. Sai, nel mercato discografico di oggi dove tutto è usa e getta, ho avuto di sicuro una grande fortuna. A partire da questo, ovviamente si sono aperte molte porte…

 

Quindi i musicisti li avete trovati insieme? 

Diciamo che io avevo dei sogni: lavorare con Fabio Rondanini alla batteria, con Stefano Mariani come fonico, con Paolo Costa… sono tutti nomi importanti per cui è chiaro che se li chiama Diego è un’altra cosa… Poi tieni conto che ha pagato tutto lui… 

 

Credeva nelle canzoni, quindi…

Certo. Lui voleva innanzitutto fare un bel disco. Era sicuro che lavorare a queste canzoni avrebbe voluto dire lavorare ad un bel disco. Poi che l’etichetta si fosse trovata oppure che si fosse venduto il cd per strada, non era una cosa che gli interessava. 

 

Che è incredibile, in effetti. Che ci sia ancora gente così disposta ad investire sull’arte pura… 

Ah sì, chiaro! Poi conta che la mia etichetta l’ho incontrata per strada: ero a Bruxelles a suonare e ho conosciuto un produttore polacco che vive a Bruxelles e che ha questa piccola etichetta. Mi ha sentito suonare e ha deciso di far uscire il disco. Quindi è bello che io sia in una situazione per cui posso lavorare in totale libertà, senza limitazioni. 

 

Le canzoni come sono venute fuori? 

La scrittura e l’arrangiamento hanno coinciso. Andrea (Brussolo, il chitarrista che ha suonato anche sul primo disco NDA) e io abbiamo lavorato assieme alle canzoni. Abbiamo fatto dei provini prima, che sono poi quelli che abbiamo fatto ascoltare Diego, quelli per cui ha deciso di produrci. Io do le mie idee ma più che altro è Andrea a pensare tutta la fase di arrangiamento. Che è una fase importante perché spesso questo va ad influenzare e ad arricchire la scrittura, come è successo in “Tutta la vita davanti”. 

 

A Bruxelles hai presentato i tuoi pezzi in inglese. Ho visto il concerto su internet e, se ti devo dire la verità, trovo che funzionino molto meglio in italiano. Non pensi che sarebbe meglio lasciarle così? L’italiano ha una sua peculiarità melodica e fa niente se la gente non capisce quel che dici, puoi sempre preparare delle traduzioni… 

In realtà il progetto è quello di riarrangiarle completamente e di ricantarle in inglese, come se si trattasse di cover di quelle canzoni. Lo abbiamo già fatto con “Le chiavi di casa mia”, con cui abbiamo aperto il concerto di Bruxelles. Ecco, l’idea sarebbe proprio quella, di portarle in giro in versione nuova e poi magari anche di realizzare un cd apposito. Quindi non saranno semplicemente le stesse canzoni cantate in inglese e in questo senso credo che funzionerà bene. 

Un’ultima domanda: questo disco, ancora di più del precedente, dimostra che il tuo songwriting è sicuramente maturo per un successo di grandi proporzioni. Credo che il seguito che sei riuscito a raccogliere nel giro di pochissimo tempo, semplicemente andando in giro a suonare, dimostri che quando una proposta è valida, arriva comunque anche senza un grande battage pubblicitario. Come vivi questa cosa oggi? Sei consapevole che potresti diventare molto più grande di quello che sei già? 

La cosa veramente bella, che poi è la costante di questi sei anni della mia vita, è proprio il fatto di poter vivere di musica. Poi è chiaro che ho delle ambizioni, spero che questo disco piaccia e che la gente lo compri, però non dipendo da come andrà, non sono condizionato da questo. Tanta gente mi ha anche chiesto se vorrei andare ad un Talent Show prima o poi. Ma sarebbe assurdo, perché dovrei? Sarebbe come fare una cosa completamente diversa da quella che faccio oggi! Perché dovrei cambiare? Io vivo già di musica! Poi certo, per il disco abbiamo fatto le cose in grande, abbiamo scelto un ufficio stampa importante, andremo nei negozi con una buona distribuzione… è una cosa che prendiamo sul serio! Però allo stesso tempo, è bello sapere che non è un’ossessione. Sono orgoglioso di quello che ho fatto e sono fiero di presentarmi così oggi. Chiaro che il mercato discografico ha le sue regole e non sarà facile. Non è la mia priorità, quella di esplodere commercialmente, ma se anche ci fosse una possibilità su cento, perché non giocarsela? 

 

 

Due giorni dopo, il concerto da cui siamo partiti. Di fronte ad un teatro Leonardo non esaurito ma comunque bello pieno, Soltanto ha eseguito interamente “Skye”, facendosi accompagnare da una band di sei elementi, che a parte il chitarrista Andrea Brussolo risulta completamente rinnovata. Il suono dalla platea non è eccezionale, si perdono molte sfumature, soprattutto chitarre acustiche e violoncello risultano sacrificate quando il sound si carica di elettricità; nonostante questo, la band ha un bel tiro ed è sufficientemente coesa, pur non avendo di fatto mai suonato queste canzoni dal vivo, e garantirà uno show diretto e piacevole per tutta la sua durata. I pezzi del disco sul palco non sono molto diversi da come sono stati registrati e convincono pienamente, anche quegli episodi (come “Il musicista di via Mercanti) che ci erano sembrati un po’ troppo “commerciali” ad un primo ascolto. 

Tra una canzone e l’altra Matteo interagisce col pubblico (a volte utilizzando Andrea come spalla), raccontando gli aneddoti dietro alle varie canzoni e rispondendo ad alcune domande che qualche giorno prima aveva sollecitato i fan a rivolgergli in rete. Non è spigliatissimo, si capisce che è emozionato ed aveva perfettamente ragione a dire che su di un palco è molto meno a suo agio che in strada. Eppure, lo si ascolta volentieri, proprio per la grande sincerità che traspare dalle sue parole. 

Spazio anche per qualche brano acustico, come la cover di Passenger “Let Her Go”, una versione in inglese completamente riarrangiata di “Tu dove sei?”, brano del primo lavoro e una  “Montpellier” un po’ meno festaiola del solito ma comunque buona per un bel battimani. 

Non c’è stato molto dal primo disco, solo tre brani, forse per la voglia di non ripetersi e di non rubare spazio al vero festeggiato della serata. 

Serata che si conclude sulle note di “Tonight”, un brano inedito lasciato fuori dalla tracklist di “Skye” e che è forse una delle cose più entusiasmanti che si siano sentite in questo concerto. Speriamo di sentirla su disco in futuro. 

La storia di Soltanto dovrebbe essere presa d’esempio da molti. In un periodo in cui non è mai stato così facile fare musica, sembra però che l’accettazione e la disillusione regnino anche tra gli stessi artisti. Uno come Matteo ci dice invece che se sei bravo e scrivere canzoni è la tua vocazione, le circostanze storiche che stiamo attraversando non saranno certo in grado di fermarti.