Gli angloamericani, si sa, non hanno una grande dimestichezza con il latino che al massimo è popolare per loro come un dialetto dell’Africa del sud. Non stupisce dunque che su siti, forum e youtube si trovino domande di chiarimento sul “misterioso linguaggio” che accompagna il finale della versione di Bird on the Wire, pezzo composto da Leonard Cohen, inciso da Tim Hardin nel 1971.



Si tratta appunto di latino, i versi “Dona nobis pacem”, dona a noi la pace, compresi nel canto “Agnello di Dio” che si esegue tutte le domeniche durante la messa nelle chiese cattoliche.

In realtà anche per noi italiani che discendiamo in parte dagli antichi latini e che questa lingua studiamo a fondo a scuola, quei versi messi nel finale di quella particolare canzone, anche se ci sono familiari, mettono i brividi e inquietudine, davvero suonano come un linguaggio misterioso, arcano, tombale. Che ci fanno in una canzone rock?



Quando Tim Hardin incide il brano di Cohen che apparirà in apertura del disco omonimo uscito nel 1971, il suo ultimo disco inciso in patria, ha trent’anni e una rovinosa dipendenza dall’eroina. Morirà pochi anni dopo, neanche quarantenne, nella solitudine e nella miseria, con una ex moglie e una figlia abbandonate chissà dove. 

La canzone di Cohen, uno dei massimi capolavori del cantautore canadese, è un inno di per sé e a suo modo una preghiera. I versi iniziali (“Like a bird on the wire, Like a drunk in a midnight choir I have tried in my way to be free”, come un uccello sul filo, come un ubriaco in un coro di mezzanotte, ho cercato a modo mio di essere libero) sono macigni incisi sul marmo del dolore esistenziale e del desiderio di significato di ogni essere umano. Il desiderio massimo, il desiderio infinito, il desiderio che ci costituisce per l’eternità: essere liberi. Già l’immagine dell’uccello su un filo (della luce) suggerisce una istantanea di fragilità estrema: il passerotto che cerca di bilanciarsi per rimanere in equilibrio, cacciato via da un soffio di vento, è l’immagine della nostra fragilità umana. Ma quello che esalta questi versi è l’immagine di un ubriaco “in un coro di mezzanotte”. Chi non ha tirato mezzanotte in un angolo della sua città, ubriacandosi di follia per coprire il suo urlo di dolore, cantando a squarciagola nell’oscurità canzoni con amici con la pretesa di non sentirsi soli? L’immagine del coro è poi quasi liturgica, come una sacralità ricercata nelle pieghe più basse della miseria e della sconfitta. E rimanda ovviamente al coro della messa di mezzanotte, quella di Natale.



Echeggiando la straordinaria My Way di Sinatra, Cohen, suggerisce un’immagine di immensa dignità: a modo mio, alla mia maniera, con i miei errori e con i miei sbagli, ma ho cercato di essere libero. C’è qualcosa di più grande di questo?

Si può cominciare a capire perché Hardin avesse desiderato incidere questa canzone, tanta era, evidentemente, la corrispondenza che vi sentiva al suo interno. Il cantautore americano cambia anche leggermente un verso, facendo risuonare così in modo ancora più elevato (e devastante) quanta carne e sangue stava mettendo in questa interpretazione. Invece dell’originale “Like a worm on a hook” come un verme appeso all’amo, lui canta “like a man on the hook”, come un essere umano appeso all’amo. Si sente e si vede il suo sangue, quello dell’eroinomane che sporca una ennesima siringa, attaccato all’amo della sua dipendenza. 

“Ma se sono stato cattivo, spero che tu possa dimenticarlo, se sono stato insincero, spero che tu capisca che non l’ho mai fatto contro di te”, si sente nel ritornello. Cohen, come suo solito, gioca con il dualismo donna/Dio: le sue parole possono essere rivolte all’amante, ma anche a Dio. 

Per Tim Hardin, un uomo che percepisce la presenza strisciante della morte, non c’è dubbio: si sta rivolgendo a Dio. Con un colpo di genio (non sappiamo se era credente, cattolico, praticante o chissà che altro) inserisce nel finale un coro (di ubriachi?) che chiede la pace di Dio: dona a noi la pace. Che altro può chiedere un uomo che ha rovinato con le sue mani ogni capacità, bellezza, genialità?

Tim Hardin, fuggito da scuola, fuggito di casa, fuggito dalla sua bravura immensa, quella di un cantante straordinariamente dotato, di pura classe jazz, chiede perdono e chiede la pace che con le sue mani non riesce a ottenere.

La sua versione di Bird on the Wire, musicalmente, è di una potenza struggente infinita, schianta a terra chiunque abbia ancora un cuore che pulsa, è un lamento ricolmo di una grazia che trascende il cantante stesso. Nonostante abbia perso l’energia e la freschezza delle sue prime incisioni, Tim Hardin riesce a consegnare alla storia una incisione che riverbera per l’eternità. Tutto il disco peraltro si segnala come il suo ultimo grande disco, circondato per l’occasione da un gruppo di musicisti di altissima classe. Poi sarà la discesa finale, verso quella libertà cercata a modo suo.

Nel suo primo disco Tim Hardin aveva inciso un pezzo intitolato Reason to Believe, ripreso con grande successo da altri cantanti tra cui Rod Stewart. Quel brano gli procurò i soldi necessari per farsi di eroina tutta la vita, visto che i suoi dischi non venivano apprezzati e capiti. In fondo Tim Hardin, come tutti noi, cercava soltanto una ragione per cui credere quale fosse il senso dell’esistenza.