Alzati, Ray. Il sole si sta alzando e io non riesco a smettere di pensare di come qualcuno che ami così tanto possa avercela così tanto con te.” E poi lei a un certo punto ne ha abbastanza di te, di te che avevi fatto di tutto per lei. Le avevi comprato un uccellino e lei, per ripicca, è uscita fuori, fra la neve ed il gelo, un freddo glaciale che assomiglia al tuo cuore, e ha aperto la gabbia. E poi se ne è andata via così, scomparendo in mezzo alla neve. Non l’hai più vista, da allora. Ed ora l’unica cosa di cui hai bisogno è una tazza di caffè bollente e cercare di tirare avanti, anche se la vita è così faticosa.
Chi è Ray? Ray è uno dei personaggi di Willy Vlautin, uno dei più grandi narratori che abbiano mai deciso di scrivere canzoni. E “Wake up Ray” è la canzone che apre l’ultimo disco dei Richmond Fontaine. Ultimo in tutti i sensi, visto che la band, al termine del tour che segue la pubblicazione dell’album, si scioglierà, probabilmente per dare il modo al suo leader di concentrarsi sui propri romanzi e sul progetto dei Delines, in cui più che uomo da proscenio, Vlautin è deus ex machina.
Non puoi tornare indietro, se non c’è nulla a cui poter ritornare. Il titolo del disco è un titolo programmatico, che dice tutto. Nelle canzoni di Willy Vlautin c’è sempre qualcuno che cerca di fuggire. Ma da cosa sta fuggendo?
Qualcuno è sceso da un bus scalcinato cercando non si sa cosa. Qualcuno è venuto a prenderlo ma c’era qualcun altro che lo aspettava. Tra pillole e additivi vari, c’è sempre alle spalle un poliziotto che ti cerca. Non ti riporterà indietro, perché non c’è nessun indietro in questa vita. Soltanto una corsa continua e ossessiva verso il nulla della pancia profonda dell’America più desolata.
Willy Vlautin è nato a Reno, in Nevada. Reno è una città incastrata fra un casinò e l’altro. Rappresenta la faccia più oscura del mito di Las Vegas. Una città di reietti e giocatori d’azzardo che hanno perso la propria identità, schiacciati da una bestia che gli divora le interiora e, chissà, forse dalla grandezza del loro stesso desiderio. In quella città ci è nato e ci è cresciuto e di quell’umanità così sperduta è stato un osservatore sin da piccolo. E, probabilmente, per immischiarsi con quegli uomini ma senza vendere la propria anima alla Bestia, ha scelto di raccontarli.
Facciamoci un altro giro. Non importa dove. Ubriachiamoci tutta la notte, come ai vecchi tempi. Giriamo senza meta, non rinunciamo un momento solo alla vita. Spacchiamola in due e guardiamo che cosa c’è dentro. Facciamoci un altro giro. E non importa se dopo saremo disfatti. Chissà, forse siamo soltanto due estranei abituati ad essere amici fra loro. Non si può sapere. Mettiamoci alla prova. Passiamo tutta la notte in macchina, e poi passiamo da Winnemucca a Tonapah. Ma facciamolo. Prima che la vita si consumi, dobbiamo essere noi a consumare lei.
La musica dei Richmond Fontaine è specchio delle storie che narrano. Scarna, desertica. Qualche chitarra, pedal steel, qualche tocco di piano qua e là, ogni tanto uno stridio elettrico. La voce è un lamento di carta vetrata. Willy Vlautin canta le sue storie con le corde vocali che sembrano sanguinare ad ogni pezzo. Eppure, qua e là, in queste ballate indolenti e caracollanti ogni tanto sembra di cogliere un barlume, uno sprazzo di dolcezza. Non è commiserazione: Willy Vlautin canta queste storie non per il gusto della lacrima ma per capire. Per capire cosa ci sia nel cuore di un uomo desolato.
Sei una stronza. Ti ho dato tutto ed ora sei lì a farti scopare da uno che, fra un giro e l’altro, si ascolta pure i miei dischi. Cosa ti ho fatto? Forse eravamo soltanto due amici che stavano naufragando. Forse. Intanto ti ho sognato, e nel sogno stavamo andando a fondo. O forse è così solo per me. Sto male e non pensavo che si potesse stare male così tanto. E chissà se mai te ne accorgerai. Ma intanto io continuo a sognarti.
Qualcuno lo chiamava alt-country. Erano stati gli Uncle Tupelo a tracciare la strada. Avevano preso la musica rurale americana e l’avevano sporcata con l’urgenza bruciante del punk e del rock’n’roll. E avevano iniziato a raccontare dell’America più profonda, dell’altra faccia del mito americano, quello più scomodo e meno raccomandabile.
Questo ultimo disco dei Richmond Fontaine è l’ultimo atto di quella storia. Forse l’epitaffio tardivo di una scena musicale. Sicuramente il capolavoro di una band che di quella stagione è stata protagonista. E, non di meno, senza timore di esagerare, questo “You can’t go back if there’s nothing to go back to” è uno dei dischi più belli mai pubblicati, per quanto concerne l’aspetto narrativo.
Eccoci. Siamo qua. Pensaci. Staremo lì e saremo felici, sulla nostra strada. Staremo con gli amici. Io troverò una ragazza. Bella. E dolce. E senza sbalzi di umore. E poi ci incontreremo e passeremo del tempo insieme. E saremo felici. Pensi che una cosa del genere mi potrà mai succedere? Pensi che per me ci sarà mai una strada semplice da percorrere?
“Pensi che una cosa del genere mi potrà mai succedere? Pensi che per me ci sarà mai una strada semplice da percorrere? ”. Il disco si conclude con queste parole, che suggellano la meravigliosa “Easy run”, un sussurro per voce, pianoforte e niente altro.
In fondo, tutto il percorso narrativo e musicale dei Richmond Fontaine è racchiuso in queste due domande. Perché tutte le domande e le sconfitte dei personaggi che popolano le storie di Willy Vlautin, e in fondo tutta la sua poetica, è contraddistinta da questa ricerca umana, da un desiderio smisurato che si traduce spesso in un’apparente sconfitta. Ma, come diceva il poeta americano William Carlos Williams, “nessuna sconfitta è fatta interamente di sconfitta, giacché il mondo che apre è sempre un luogo insospettato”. E, aggiungiamo noi, in cui non è possibile, nonostante tutto, smettere di sperare.
(Le parti narrative sono libere interpretazioni delle canzoni contenute nell’album).