“Io vorrei che la gente venisse a vedermi ai concerti con lo stesso spirito con il quale va a vedere allo zoo certi animali in via d’estinzione”. Lo ha detto Federico Fiumani dei Diaframma anni fa, è una delle sue frasi più celebri, ci hanno pure fatto delle magliette, tempi addietro. 

Un paio di sere fa sono stato a Trezzo sull’Adda a vedere i Television e l’idea era un po’ quella. Innanzitutto perché io mi sentivo così: la band di New York non ero mai riuscito a vederla, un po’ per ragioni anagrafiche, un po’ per mancati incastri di coincidenze. 



Ma poi perché loro, probabilmente, sono diventati così. Una carriera brevissima quanto sfolgorante, nella New York capitale del punk americano (che, a differenza di ciò che accadde oltremanica, durò e costruì molto di più), ribollente calderone nel quale si muoveva gente come Patti Smith, Talking Heads e Blondie, tutti con i Velvet Underground ben scolpiti in testa, pronti a cambiare il mondo della musica in un locale che poi sarebbe diventato leggendario come il CBGB. 



Un esordio clamoroso e definitivo, che li ha consegnati alla storia senza minimamente preoccuparsi di scrivere un seguito, di aggiungere qualcos’altro: “Marquee Moon” è uno di quei dischi che non si discutono, che ha preso il rock tradizionale e l’ha sporcato col punk e la New Wave, un lavoro straniante e allucinato dove la psichedelia non è un ingrediente secondario e la parola “perfezione” può essere scomodata senza troppi problemi. 

Uscì nel 1977, due anni dopo “Horses” di Patti Smith, giusto a ricordare che quello non aveva costituito un episodio isolato e che qualcosa stava succedendo davvero. 



L’anno successivo arriva “Adventure”, più tradizionale, più suadente, meno spigoloso e ugualmente bellissimo. Poi, piuttosto inaspettata, la fine. Tom “Verlaine” Miller decide che è venuto il momento della carriera solista e i Television vengono congedati. 

Salvo ripresentarsi nel 1991 in formazione più o meno originale, con un disco che ne riproponeva la classe cristallina, seppure la scintilla del primo capolavoro non poteva più essere ripetuta. 

Sono seguiti sporadici tour all’insegna dei bei tempi andati finché, nel 2013, l’ansia delle vecchie rockstar di riprendersi quel che era stato loro in passato, unitamente al pessimo stato dell’industria discografica, hanno fatto propendere i quattro per un ritorno in pianta stabile, offrendo in dono al pubblico ciò che hanno sempre avuto di più prezioso: una manciata di grandi classici che forse non tutti erano ancora riusciti ad ascoltare nella dimensione live. 

E così, dopo il tour di celebrazione in cui “Marquee Moon” veniva suonato per intero, ecco arrivare l’immancabile giro del “Greatest Hits”, durante il quale non ci sarebbe stato un disco preciso ad essere preso in esame, ma una selezione dei loro più grandi successi. E qui, dico io, non potevo mancare. Sono passati almeno un paio di volte dalle nostre parti ma, l’ho già detto, non ero mai riuscito ad esserci. È inutile nascondersi dietro a un dito: sono gli ultimi anni, poi certi nomi non li vedremo più. Sono animali in via d’estinzione, appunto e non è per forza detto che sia un modo spregevole per definirli. E soprattutto, non ci sarebbe niente di male se anche loro si definissero così. 

Sicuramente la risposta del pubblico non è stata quella delle grandi occasioni. Quando arrivo sul posto il locale (che è uno dei più capienti e belli che abbiamo in Italia) è quasi del tutto deserto ed è uno sparuto gruppo di poche decine di persone ad accogliere l’arrivo di Luisa, una ragazza di Amburgo che ci intrattiene per una mezz’ora scarsa con le canzoni del suo album d’esordio all’insegna di un folk che fa abbondante uso dei loop e dei campionamenti, come vuole la moda del secolo. Brava, voce da contralto potente ed espressiva ma canzoni anonime in una maniera disarmante. Non ha lasciato nulla, nessun motivo per cui valga la pena anche solo di andare a cercarla su Spotify. Un altro artista destinato all’oblio, sembrerebbe. 

Nel periodo dedicato al cambio palco (allietato da alcune sonate per pianoforte, scelta astrusa da addebitare sicuramente alla band stessa) per fortuna arriva parecchia gente in più e il posto presenta per lo meno un buon colpo d’occhio, seppure molto lontano dalla capienza massima. Era piuttosto ovvio, però: non è stata l’unica data italiana e negli ultimi anni sono venuti più volte. Dura che qualcuno ritorni, a meno di non essere un fan sfegatato. 

 

Avevo visto delle foto recentemente ma non ero comunque preparato: i quattro Television sono vecchissimi. Ma roba che al confronto i Rolling Stones sembrano dei ragazzini. Poi controlli le date di nascita e scopri che Tom Verlaine in realtà è del ’49. Vale a dire che avrebbe la stessa età di Bruce Springsteen. E allora lì capisci che, al di là del look e delle scelte di vita, invecchiare bene non è proprio qualcosa che sia possibile dare per scontato. 

Rimane che l’impressione è proprio strana: Tom Verlaine, che per molti era “il poeta maledetto del rock” (e del resto il nome che si è scelto non se l’è scelto a caso) adesso è sul palco nei panni di un distinto signore anziano dall’aria riservata, avvolto in una camicia e in un paio di pantaloni forse volutamente più grandi della sua taglia. 

Gli altri tre non sono da meno: soprattutto Fred Smith, il bassista che sostituì quasi subito il leggendario Richard Hell, è ancora più compassato dietro i suoi occhiali da vista ed è il musicista rock che meno sembra un musicista rock, tra tutti quelli che visti in vita mia. 

“Ce la faranno a suonare?” Mi chiedo con un po’ di timore, anche sulla scia del ricordo di alcuni commenti letti su uno stato di forma non proprio all’altezza. 

 

In effetti, quando attaccano “Prove It” è impossibile non accorgersi di tutti gli anni che sono passati. Il sound è perfetto, nitido e cristallino, ma la potenza e il tiro, in gran parte se ne sono andati. Il brano esce moscio, così come la successiva “Elevation” e la voce di Tom è poco più di un sussurro, a volte imprecisa, quasi mai in grado di rievocare le atmosfere del passato. 

Non sono brutte esecuzioni, attenzione. Semplicemente, gli anni trascorsi pesano ed è impossibile non accorgersene. 

Il pubblico (anch’esso non più giovane e questa è la vera nota triste della serata, questa cronica mancanza di ricambio generazionale. È evidente che il rock, salvo pochissime e circostanziate eccezioni, ha cessato da tempo di catturare l’attenzione dei ragazzi), da parte sua, è composto, attentissimo e applaude entusiasta tra un pezzo e l’altro. 

Lo show è poco fluido perché Verlaine si ferma spesso ad accordare la chitarra e mentre è intento a tale attività, appare assorto nei suoi pensieri. Interagisce pochissimo con il pubblico ma non certo perché sia svogliato e scontroso, anzi. Lui è sempre così, il suo carisma è anche questo, l’essere totalmente dentro quello che sta facendo, perfezionista al punto tale da non iniziare un pezzo finché tutto non è come dev’essere, e poi teso a comunicare se stesso solo mediante la forza delle sue canzoni. 

Scherza in un paio di occasioni, tra cui una volta col tecnico delle luci, al quale chiede di passare dal rosso al blu, giudicato più adatto per la canzone che sarebbero andati ad eseguire. E da questi piccoli particolari di capisce che c’è, che è in forma e che ha voglia di suonare. 

L’altro chitarrista è Jimmy Rip, che fa parte della band dal 2006, quando il membro originale Richard Lloyd decise di abbandonare la nave definitivamente. La perfetta interazione tra quest’ultimo e Verlaine è stata uno dei grandi segreti di “Marquee Moon” ma Rip non ce la fa rimpiangere per nulla: i suoi assoli sono affascinanti ed evocativi quasi quanto quelli del precedessore e i suoni questa sera sono davvero meravigliosi, l’ideale per gustarceli in pieno. 

Dietro le pelli invece c’è sempre Billy Ficca e lui è sempre una garanzia. Ha perso potenza, purtroppo, ma la precisione, almeno quella, non manca. 

 

È comunque innegabile che sui brani più sostenuti i nostri non siano più in grado: “See No Evil” esce lenta e fiacca, con una prestazione vocale non all’altezza. La band, dal canto suo, pare però averlo capito perché, a parte questo episodio (obbligatorio visto che si tratta di uno dei loro brani più famosi) vengono privilegiati pezzi più lenti ed evocativi ed è proprio qui tutta la loro classe ha modo di emergere e di fare la differenza. 

In questo senso risulta splendida “1880 or So” che non è un grande classico (è l’opener del disco del ’91) ma che dal vivo mette in chiaro quanto sia degna di stare a fianco alle cose più titolate. 

Brividi lungo la schiena corrono anche per “Torn Curtain”, il lungo, ipnotico brano con cui si chiude “Marquee Moon” mentre l’apice assoluto di tutta la serata, almeno per il sottoscritto, sta nella lunghissima (quasi 25 minuti) “Persia”, un brano che è comparso negli ultimi anni nelle setlist dei nostri e che potrebbe anche essere frutto dei lavori di composizione di un nuovo disco (circola in effetti la notizia che debbano tornare in studio prossimamente ma ancora non c’è niente di ufficiale, almeno credo). È un brano che vive tutto del dialogo tra le due chitarre e sui crescendo del ritmo: prima sostenuto, poi quasi sussurrato, poi di nuovo sostenuto con improvvise esplosioni elettriche. È l’episodio più psichedelico di tutti quelli suonati stasera e se i quattro decidessero di intraprendere questa strada nel nuovo lavoro, farebbero certamente la scelta giusta. Il pubblico fissa i quattro completamente ipnotizzato per tutta la durata del pezzo. Sono momenti di quasi trance, dove il tempo sembra essersi fermato. 

C’è un altro pezzo, “The Sea”, che circola da un po’ di anni nei concerti e anche questa sera viene suonato. Ipnotico anch’esso, molto struggente nelle linee vocali, è un’altra dimostrazione che, contrariamente alle apparenze, i Television non vogliono solo vivere nel passato. 

L’ultimo brano è però ovviamente “Marquee Moon” e il suo celeberrimo accordo d’apertura viene salutato da quello che è forse il boato più grande dell’intera serata. Mi godo quei celebri assoli per la prima volta dal vivo e anche se non è il 1977 da un bel pezzo, la magia, almeno un po’, c’è ancora. È in quel momento che capisco che ha ancora senso andare a vedere i grandi del rock. Sono grandi proprio perché hanno fatto ciò che nessuno ha fatto, e quindi finché si reggeranno in piedi sarà gusto andarli a vedere, soprattutto se li abbiamo mancati nei loro anni migliori. 

C’è ancora spazio per un bis: si tratta dell’outtake “I’m Going to Find You”, mai incisa in studio ma spesso suonata a fine show. 

I quattro sorridono, salutano, ma non si perdono troppo in convenevoli. Torneranno? Se lo faranno con un nuovo album tutto avrà ovviamente molto più senso. Nel frattempo la mia lacuna l’ho colmata: posso dire di aver finalmente visto i Television dal vivo.