Quando uscì nel 2006 quello che allora era il nuovo disco di Bob Dylan intitolato “Modern Times”, tra le tante recensioni e articoli sul disco che apparvero sui media come sempre in questi casi, ce ne fu una che nessuno si sarebbe mai aspettato. Colpì per prima cosa il giornale, Il Sole 24 Ore, organo ufficiale della Confindustria. Poi la firma, Giulio Sapelli, uno dei massimi economisti italiani e internazionali, docente di Storia dell’economia. Che ci azzeccavano, il giornale e l’autore con Bob Dylan? Sapelli era rimasto colpito da un brano in particolare di quel disco, Workingman’s Blues #2, il blues della classe operaia. Nel testo della canzone Sapelli (non eravamo ancora alla crisi mondiale apertasi nel 2008) aveva trovato un passaggio che secondo lui era l’analisi più acuta del mondo del lavoro di allora, un’analisi profetica di quanto stava per accadere con la catastrofica crisi dei mutui alle porte, i versi “the buyin’ power of the proletariat’s gone down. Money’s gettin’ shallow and weak”, il potere d’acquisto del proletariato è crollato, i soldi stanno diventando sempre più senza valore. 



Il brano si intitolava “numero 2” perché Dylan aveva ripreso lo stesso titolo di una canzone di Merle Haggard, appunto Workingman’s Blues. Tra una canzone e l’altra erano passati oltre trent’anni. C’era differenza, fra i due brani, ma fino a un certo punto. Se Dylan rivendicava la dignità del lavoratore messo alle strette dai poteri finanziari e bancari, Haggard esaltava la figura “all american” del lavoratore  che si spacca la schiena tutto il giorno ma ma non rinuncia allo spirito libertario e individualista, disposto a faticare e sputare sangue per conto suo piuttosto che far affidamento sull’assistenza (o assistenzialismo) statale: “Non ho mai fatto parte del welfare, è un posto di cui non faccio parte, perché lavorerò tanto a lungo quanto le mie mani mi permetteranno di farlo”. Al diavolo anche la pensione o l’assistenza, dice il protagonista del brano, conto su di me fino a quando potrò lavorare.



Merle Haggard, scomparso il 6 aprile giorno del suo 79esimo compleanno (“Me me andrò il giorno del mio compleanno” aveva preannunciato ai figli) dopo lunga malattia, era probabilmente l’ultima leggenda della musica country americana, dopo la scomparsa di Johnny Cash. Di quella musica l’uomo ha incarnato tutte le contraddizioni. 

In un brano del 1969 diventato celebre, Okie from Muskogee, Haggard si era scagliato contro hippie e pacifisti vari in difesa dei soldati americani che combattevano in Vietnam. Due brani, questi citati, che basterebbero, e in realtà a lungo è stato così, per etichettarlo come un fasciste della destra più conservatrice. Okie from Muskogee peraltro era una canzone così brillante e anche ironica che sarebbe stata ripresa da un sacco di musicisti hippie e pacifisti, ad esempio i Grateful Dead.



Merle Haggard è stato un americano fino in fondo, qualcosa che oggi probabilmente non esiste più, qualcosa che in Italia si fa ancora fatica a capire, coraggioso abbastanza per dire quello che pensava, per cambiare idea e per ironizzare sull’America stessa. La sua immensa discografia è stata comunque di tale valore musicale che gli ha permesso qualunque libertà e il riconoscimento da parte di tutti.

Haggard d’altro canto non è stato un politicante, un predicatore, un affarista di Wall Street: era l’espressione dell’autentica classe lavoratrice. Un uomo che ha attraversato il peggio della vita e ne è uscito fuori con le sue forze. Dall’età di 14 anni non fece altro che entrare e uscire da carceri minorili, per poi essererinchiuso nel 1957 nel carcere di San Quintino per tentata rapina a mano armata. Qui ebbe modo di veder esibirsi un giorno Johnny Cash cosa che gli fece decidere di cambiare stile di vita. Tra un carcere e l’altro aveva già mostrato di avere doti musicali, si era esibito diverse volte in piccoli concerti, ma adesso aveva deciso di fare sul serio. La pena gli verrà condonata nel 1960 dall’allora governatore della California Ronald Reagan, e il suo primo successo discografico arriva nel 1966. Poi non si fermerà più. 

Fu un anche un innovatore, inventando il cosiddetto Bakersfield sound  introducendo per primo la chitarra elettrica nella musica country in un mix con la pedal stele e uno stile vocale apparentemente rozzo e diretto che contraddiceva la scuola del bel canto di Nashville. Come Cash, come Willie Nelson, come Kris Kristofferson, Haggard era un “fuorilegge” della musica country, intesa come esaltazione di spirito individualista e fuori di ogni convenzione. Pochi anni prima di morire, aveva detto: “Nella mia anima c’è una irrequietezza tale che non sono mai riuscito a sconfiggere. Non ci sono riuscito muovendomi da un posto all’altro, non ci sono riuscito con i matrimoni (cinque, nda). Oggi mi sono calmato un po’, ma quell’irrequietezza c’è ancora. E ci sarà fino a quando morirò”.

Una delle sue canzoni più belle e toccanti, ripresa da dozzine di artisti, racconta di un uomo che viene portato in carcere. Prima che si chiuda la porta della cella fa una richiesta al poliziotto: “lascia che il mio amico canti una canzone che mi ricordi la casa dove vivevo, faccia rivivere i miei vecchi ricordi, mi porti via e faccia andare indietro gli anni: canta e portami a casa prima che muoia”. Sing me back home, tra le tante incisioni magnifiche di questo bandito della musica, resta la testimonianza di un cuore grande e ricco di compassione, di desiderio di riscatto, cose che solo chi ha visto il male in faccia e lo ha accettato sa percepire. Haggard ha trasceso la tradizione e infuso nelle canzoni il sangue incandescente dei santi ribelli. Ha inscenato un teatro dell’arte pescando dalla propria esperienza personale senza far apparire un vezzo il suo essere stato un poco di buono, e così facendo ha fatto percepire a chi lo ascoltava un senso di comunione nella solitudine che ciascuno vive. Non ci saranno più artisti come lui, o come Johnny Cash, perché oggi la gente ha abdicato alla sofferenza e al coraggio di vivere, nascondendosi nella sterilità mortale del proprio egocentrismo.

Dieci anni fa esatti, nel 2006, Haggard aveva aperto alcuni concerti americani dei Rolling Stones, qualcosa sulla carta impensabile, ma che invece aveva perfettamente senso. Jagger e soci hanno pochi anni in meno di lui, le tante morti di questo 2016 ci dicono che siamo a un momento di svolta e alla chiusura di uno dei capitoli più emozionanti della storia dell’umanità. E’ impossibile pensare ci sia qualcuno che prenda il posto di queste persone, perché il tipo di valori culturali e l’etica del lavoro che hanno permesso a Haggard di diventare quello che è diventato non esistono più. Ed è quello che fa più male, al di là della morte stessa di questi personaggi.