E’ noto il racconto di Thom Yorke secondo cui i Radiohead avrebbero impiegato quasi più tempo a decidere la sequenza esatta delle tracce di “Ok Computer”, che a scrivere il disco stesso. E la stessa cosa si sarebbe ripetuta col successivo “Kid A”, tre anni dopo. 

Con questa informazione in testa (volutamente caricata ma il senso è quello) si può immaginare il disorientamento che ho provato nel constatare che questa volta le canzoni di “A Moon Shaped Pool”, il nuovo album che ci siamo trovati tra le mani improvvisamente, dopo uno stillicidio di indizi e indicazioni che avrebbe ucciso anche il fan più paziente, sono semplicemente sistemate in ordine alfabetico. 



Paradossalmente ci si mette un po’ ad accorgersene, ma quando lo si fa, si accende una lampadina. Sono in ordine alfabetico, che è esattamente quello che succede quando su iTunes caricate un disco senza inserire i numeri delle tracce nei file (mai provato? Io sì, con la sensazione di frustrazione che mi assale quando capisco che se non l’ha fatto il proprietario dei file in questione, dovrò farlo io). 



Perché a me, le tracce messe in ordine alfabetico hanno sempre dato un feeling di abbandono, di desolazione, come di qualcosa lasciato fuori posto, senza punti di riferimento.
La sensazione che Thom Yorke e compagni avessero in mente questo, è piuttosto forte, in effetti. Dopo anni passati a lavorare sulla sequenza dei pezzi, sembrerebbe arrivato il momento di non pensarci per niente e lasciare che sia iTunes a fare il lavoro per loro. 

Che è poi la stessa cosa di dire che l’album, inteso come una raccolta di canzoni scritte, concepite e registrate insieme, con un filo conduttore ed un’unità musicale e concettuale ben definita al proprio interno, potrebbe essere morto per sempre. 



Prova ne è che questo lavoro è stato diffuso nel mondo solo via download digitale e che il cd fisico pare arriverà solamente a settembre. Non è una novità, dopotutto: lo avevano già fatto nel 2008 con “In Rainbows” e alcuni dei loro illustri colleghi (Kanye West e James Blake su tutti) il cd del loro ultimo prodotto non sembrano nemmeno intenzionati a venderlo.

Ad acuire questa impressione da fine di un’era, il fatto che nessuna delle undici canzoni che compongono il disco arrivi da perfetta sconosciuta. Erano tutte più o meno già note tra i fan più preparati della band e non solo, molte erano già state eseguite dal vivo da Thom Yorke o dalla band al completo, addirittura una (“True Love Waits”) compariva nel mini live “I Might Be Wrong”, registrato durante il giro di concerti per promuovere “Amnesiac”. 

In realtà il gruppo di Oxford l’ha sempre fatto, non è certo un segreto che ami tenere i brani nel cassetto e testarli dal vivo di volta in volta, onde verificarne l’eventuale resa in studio. 

Questa volta però è tale la mole di cose già note che sembrerebbe proprio che i nostri abbiano attinto dagli archivi, preso le canzoni che più ritenevano adatte, e confezionato un disco in fretta e furia per accontentare il mercato. 

Saremmo dei pazzi a credere a questa versione. Provenienza a parte, gli undici brani sono stati tutti registrati nello stesso periodo, sotto la sapiente regia del fido Nigel Godrich, ormai vero e proprio membro aggiunto della band. 

Ascoltato di fila, ordine alfabetico o meno, “A Moon Shaped Pool” rivela una inaspettata compattezza di fondo, un’unica visione di intenti per cui è chiaro che, al netto dell’eterogeneità del materiale, i Radiohead hanno voluto questi undici brani e solamente questi. 

In una delle sue solite uscite in stile “la tocco piano”, Noel Gallagher si è lamentato del fatto che i Radiohead sono fin troppo coccolati dai giornalisti, i quali tenderebbero di default a parlar bene di qualunque cosa esca dalla loro penna (in realtà non ha proprio usato un’espressione così educata ma fa niente). 

E’ sicuramente vero ma è altrettanto vero che tutto si può dire dei Radiohead, tranne che abbiano avuto una carriera altalenante. Persino i lavori che non hanno messo d’accordo tutti (“The King Of Limbs” in particolare) hanno saputo spazzare via in modo imbarazzante almeno il 90% della concorrenza che c’era in giro e che aspirava a divenire la nuova Next Big Thing del panorama musicale. 

Quest’ultimo non è da meno. Anzi, dopo una fase di ascolto serrato e compulsivo, durante il quale ho cercato di non rispondere ai richiami di chi già gridava al capolavoro (è ormai difficile, con Facebook e tutto il resto, non far sapere subito che cosa ne pensiamo di un disco.), posso affermare che “A Moon Shaped Pool” è di una bellezza incredibile, a tratti irreale e che toglierlo dallo stereo mi sta risultando praticamente impossibile. 

E’ un disco importante, questo, molto più importante di quanto si potrebbe pensare. Lo capisci subito dal mood generale: “In Rainbows” e “The King of Limbs” erano due dischi bellissimi, di pregevole fattura, quasi del tutto privi di difetti. Eppure, se qualcuno avesse voluto bollarli di eccessiva freddezza, se avesse anche solo adombrato il sospetto che dietro a tanta perfezione e raffinatezza si nascondessero anche molti esercizi di stile alquanto auto indulgenti, non l’avrebbe di sicuro sparata grossa. 

I Radiohead dell’ultimo decennio, pur facendo sempre cose egregie, da grandi musicisti e compositori quali sono, hanno recitato un po’ troppo la parte dei Radiohead. Non hanno mai sbagliato, sono anche riusciti a fare sempre cose diverse ma, appunto, erano un po’ troppo calati nella parte e pur risultando convincenti, parevano aver perso qualcosa per strada. 

Questa volta no. Questo disco è caldo ed emozionante come mai ce lo saremmo aspettato, ha lo stesso atteggiamento di una persona che dopo anni ha deciso di aprirti il suo cuore con libertà, raccontandoti tutto ciò che fino ad allora aveva preferito non farti sapere. 

In tutto questo, le recenti vicende personali di Thom Yorke c’entrano parecchio. A fine 2015 il singer si è separato da Rachel, la sua compagnia da 23 anni (“Half of My Life”, metà della mia vita, come ripete ossessivamente, nastro al contrario, nell’inquietante finale di “Daydreaming”) e il disorientamento emotivo che ne è seguito sta tutto dentro i solchi di questo lavoro. 

“I sognatori non imparano mai, oltre il punto di non ritorno ed è troppo tardi, il danno è fatto”, canta con quella che sembra amara consapevolezza in “Daydreaming”, il secondo singolo estratto e secondo brano in scaletta. 

Una ballata pianistica lancinante nella sua desolazione, una sorta di versione più disperata della “Sail to the Moon” di “Hail to the Thief”, ma con un passaggio in maggiore tra una strofa e l’altra che arriva inaspettato e che ottiene l’effetto di rischiarare un po’ l’atmosfera. 

Nel suggestivo video diretto da Paul Thomas Anderson (un regista con cui Johnny Greenwood collabora da tempo, avendo musicato parecchi dei suoi film), vediamo il cantante aggirarsi in una serie di interni diversi, in una successione surreale, senza mai entrare in contatto con nessuno e alla fine, dopo essere uscito in quella che sembra una valle montana ricoperta di neve, rifugiarsi in una caverna per riscaldarsi al calore di un fuoco. 

Se vogliamo, una metafora della sua recente separazione, ma anche del possibile percorso artistico degli ultimi anni: dalla superficie all’essenza delle cose, dalla rottura alla ricomposizione. 

I Radiohead hanno compiuto una mossa simile a quella già tentata nel 2003 con “Hail to the Thief”: dopo le sperimentazioni e le decostruzioni di “Kid A” e “Amnesiac”, un ritorno più rassicurante alla musica suonata e alla forma canzone. 

Ma come quell’album (bellissimo, bisogna dire) non fu un ritorno alle origini pur riuscendo a tratti a darne l’impressone, così “A Moon Shaped Pool” non è un guardarsi indietro bensì un nuovo passo avanti, andando però a recuperare in profondità quello che la band inglese ha dimostrato da anni di saper fare meglio: scrivere canzoni. 

C’è poca elettronica, nell’arco di questi 52 minuti. Rimane costantemente in sottofondo, a disegnare atmosfere, a plasmare la personalità dei vari episodi, ma non è più preponderante come negli ultimi tempi. 

Al suo posto, la presenza della London Contemporary Orchestra, a disegnare in modo quasi del tutto inedito le sonorità di questo disco. Merito di Johnny Greenwood, sicuramente: il più giovane dei cinque (e il più talentuoso dal punto di vista strettamente musicale) da tempo compositore di colonne sonore e appassionato di musica classica contemporanea, ci aveva giocato più volte nel corso delle sue produzioni soliste, così questa volta deve aver pensato che era giusto vestire in questo modo anche i pezzi della sua band. 

E l’orchestra assume più volte un ruolo preponderante, dialogando e intrecciandosi con le chitarre che però, a questo giro, rimangono spesso in secondo piano (anche se, ad un ascolto in cuffia, si colgono ulteriori sfumature e si capisce tutta la ricercatezza del modo in cui sono state impiegate). 

“Burn the Witch”, opener e primo singolo, ne è un esempio significativo: a conti fatti risulta forse la traccia meno interessante ma il suo incedere incalzante, ossessivo, quasi paranoico, in linea con un testo che ha molti significati ma che è di sicuro eloquente (“Brucia la strega, brucia la strega, sappiamo dove vivi.”), la rende estremamente affascinante. Anche perché qui le partiture sono davvero efficaci, variando così tanto di strofa in strofa e rendendo quindi la canzone molto mobile, pur nella staticità della melodia portante. 

E’ un lavoro che sembra andare dritto al punto, dove niente è immediato ma dove nulla viene nascosto mai eccessivamente. “Decks Dark” è costruita con  un incedere piuttosto simile a certe cose di “Amnesiac”, con basso e batteria che entrano a sostenere il ritmo, dopo una strofa pianistica. Un po’ “Pyramid Song”, un po’ “You and Whose Army” ma molto più spessa, profonda, con quei cori femminili che rendono il tutto più operistico ma anche più distante e solenne. 

E anche quando scelgono di essere meno, per così dire, magniloquenti, i Radiohead riescono a toccare le corde giuste: “Desert Island Disk” (il titolo è una citazione della celebre trasmissione della BBC Radio 4, dove gli ospiti sono invitati a dichiarare quali brani si porterebbero sulla solita isola deserta) è breve, quasi del tutto acustica e arriva dritta al cuore senza troppi fronzoli. Stessa cosa si può dire di “Glass Eyes”, giocata tutta su voce e piano, ammantata di una malinconia sospesa e con un testo che parla di fuga ma anche di demoni personali (“Hey, sono io, sono appena sceso dal treno. E’ un posto terrificante, le loro facce sono di grigio cemento, e mi sto chiedendo se non farei meglio a tornare indietro, a comprare un altro biglietto. Il panico sta salendo, qui dal di dentro”) e che sembra contenere, come quasi tutti i pezzi, un’allusione alla fine del matrimonio con Rachel (“Sento che questo amore sta diventando freddo”). 

E poi ci sono “Full Stop” e “Identikit”, due brani provenienti dalle session di “The King of Limbs” e suonate più volte dal vivo durante il tour (io stesso ricordo bene la seconda, eseguita a Firenze). Sono quelli che, musicalmente, fungono da ideale ponte con il passato ma costituiscono anche il vero e proprio fulcro del lavoro, probabilmente il suo punto più alto. 

“La verità ti incasinerà”, ripete ossessivamente ed eloquentemente Yorke in “Full Stop”, dopo un minuto e mezzo di martellante progressione strumentale basso, batteria ed effetti vari che esplode poi nel tipico brano alla Radiohead con, questa volta sì, gli arpeggi di Johnny Greenwood in primo piano. 

Meravigliosa anche “Identikit”, che è incentrata su una linea vocale meravigliosa e che ricorda un po’ “Idioteque” nel mood generale, anche se molto meno “caricata”. 

Ci sono anche autentiche sorprese: “The Numbers” inizia con una sorta di improvvisazione al piano che sfuma in una ballata acustica ma diventa orchestrale a partire dalla seconda strofa e assume un aspetto quasi apocalittico. 

“Present Tense” (una di quelle che Thom Yorke eseguiva più spesso nei suoi concerti in solitaria) ha un andamento quasi da Bossa nova ma trasuda di una disperazione inquietante, disarmata. 

E’ come se la band ci volesse far arrivare ben preparati al finale: perché “True Love Waits”, in questa nuova versione pianistica, più lenta e trascinata di quella a cui eravamo abituati, risulta emotivamente quasi insostenibile. 

 

“Non sto vivendo, sto solo ammazzando il tempo”. Questo pezzo è in giro dal ’95 e il testo non è stato cambiato ma il Thom Yorke di oggi l’ha scelta per esprimere il suo travaglio affettivo e si è dunque caricata di significati nuovi. 

Avranno anche messo i brani in ordine alfabetico, ma un disco del genere non poteva concludersi che così. E qualcuno ha fatto addirittura notare che “True Love Waits”, in questa versione, sarebbe il centesimo pezzo del catalogo Radiohead, contando solo i regolari dischi in studio ed il live album già citato. 

Come in una sorta di simbologia dantesca, quest’ultima traccia arriverebbe dunque a costituire l’approdo di un itinerario che, dopo aver esplorato e raccontato le follie e le distorsioni dell’età contemporanea, di un uomo post industriale alienato dall’onnipotenza delle nuove tecnologie (“Ok Computer” è stato profetico in questo senso ma non solo lui), di una nuova realtà orwelliana già arrivata nelle nostre vite senza che ce ne accorgessimo, è arrivato a parlare dell’intimo del proprio cuore, delle proprie lacerazioni emotive. 

Un disco che, probabilmente, riporta sulla terra una band che non pochi consideravano troppo distante, troppo aliena, troppo inarrivabile. E che costringe ciascuno di noi a fare i conti con quelle che sono le nostre certezze. Per capire se reggono. Per farci vedere che cosa succede quando vengono meno. 

Nella speranza che la piscina a forma di luna evocata nel titolo, possa essere per Thom Yorke il punto di partenza per una catarsi, per un nuovo viaggio verso la salvezza.