Nella sua biografia del cantante americano, Anthony Scaduto racconta di un giovane Bob Dylan che, tra il 1959 e il 1961, si ritrova spesso a casa dei coniugi Gleason, un appartamento ad East Orange, New Jersey, dove, nel weekend, trova ospitalità Woody Guthrie, il celebre folksinger, ormai gravemente colpito dalla corea di Huntington, che lo costringe ad una prolungata degenza in ospedale nel resto della settimana. 



“Si era stabilito un legame – racconta Scaduto – tra il morente, creatore della musica popolare moderna e il ragazzo che lo ammirava e che presto lo avrebbe superato”. “Viene oggi il ragazzo?”, chiedeva continuamente Guthrie, finché un giorno quel ragazzo non gli aveva cantato la sua Song To Woody, entrando definitivamente nel suo cuore. Scrive ancora Scaduto che Woody, rivolgendosi agli amici che erano soliti frequentare la casa, avrebbe detto: “Quel ragazzo ha una gran voce. Forse non andrà molto lontano con le canzoni che scrive, ma canta come nessuno“. Ed aggiunto: “Pete Seeger è un cantante di canzoni popolari. Jack Elliott è un altro cantante di canzoni popolari. Ma Bob Dylan è un cantante popolare. Lui è un vero folksinger“. 



A distanza di tanti anni e concordando che su una cosa Guthrie si sbagliava, ossia che quel ragazzo, con le sue canzoni, di strada ne avrebbe fatta parecchia, si potrebbe partire da quelle frasi per provare ad entrare nel misterioso e affascinante universo di Bob Dylan, alla vigilia dell’uscita di un nuovo disco che segue, ad appena un anno di distanza, Shadows In The Night

Il 20 maggio sarà disponibile, infatti, Fallen Angels, un album, come il precedente, interamente composto da celebri standard americani, molti dei quali incisi da Frank Sinatra nel corso della sua lunga carriera. Non si tratta, come sentito dire in precedenza, di registrazioni ricavate dalle session del disco precedente, ma di nuove incisioni, esecuzioni di Dylan insieme alla band con cui è stabilmente in tour da diversi anni, effettuate nello scorso febbraio nei Capitol Studios di Hollywood, lo stesso luogo dove Sinatra aveva registrato in passato. Per la seconda volta nella sua carriera, dopo l’episodio di Good As I Been To Youe World Gone Wrong, lavori dei primi anni novanta, Dylan pubblica due album consecutivi di canzoni scritte da altri, lui che rappresenta forse l’autore più prolifico ed originale in assoluto nella storia della musica moderna. Colpa di una vena compositiva che, all’età di 75 anni, si è inesorabilmente affievolita o c’è qualcosa in più, che sfugge agli osservatori superficiali? “Bob Dylan è un cantante popolare, lui è un vero folksinger”, aveva detto Woody Guthrie: non sarà questo, forse, che è sempre accaduto, anche quando Bob incendiava il palco chiedendo ai suoi musicisti di suonare “fuckin’ loud” – “fottutamente forte” – Like A Rolling Stone, quella che la rivista Rolling Stone definì la più grande canzone di tutti i tempi?



“All’inizio, prima del rock’n’roll, ascoltavo la musica delle big band – racconta Dylan – qualunque cosa venisse dalla radio e la musica suonata negli hotels dove i nostri genitori andavano a ballare”. Appartiene all’ultima generazione cresciuta senza la TV, e la notte sta sveglio, incollato alle stazioni radio, che trasmettono i gruppi gospel, la musica hillbilly, il Grand Ole Opry di Nashville, i musicisti blues. Una volta ascolta Uncloudy Daydegli Staple Singers e non riesce più a dormire: “quella musica aveva attraversato il mio corpo come se fossi invisibile”. 

Quando s’imbatte nella musica folk, all’inizio degli anni sessanta, ascolta solo quegli standard: “andavo a dormire cantando brani folk”. E quando arriva il rock’n’roll salta su quel treno che solo apparentemente sembra distruggere tutto quello che c’è stato prima. La musica è la sua vita, lo incanta, ipnotizza la sua mente, ne plasma le emozioni e i desideri. E scrive, compone canzoni, lo fa come nessun altro. Eppure nulla va perduto: “queste canzoni non uscirono dal nulla. Non le inventai di sana pianta. Uscì tutto dalla musica tradizionale, folk tradizionale, rock’n’roll tradizionale e la tradizione delle grandi orchestre swing”. Ogni tratto della sua strada è una svolta. I critici ed i fan lo amano e lo odiano, stentano a tenere il passo. Posa la chitarra acustica e prende l’elettrica, si rifugia a Woodstock, poi salta sul carrozzone della Rolling Thunder Revue, passa con disinvoltura dallo stile Las Vegas del tour di Street Legal alla musica gospel, torna in scena con Tom Petty e gli Heratbreakers, per poi imbarcarsi di nuovo nel neverending tour, una serie di concerti senza fine dal 1988 ai giorni nostri: “se verrete a cercarmi a novant’anni, probabilmente mi troverete su un palco da qualche parte”, ebbe a dire di recente. 

Per questo l’intuizione originaria di Guthrie è quella che spiega meglio di chiunque altro anche il Dylan di oggi: lui è il vero “cantante popolare”, capace d’interpretare i propri brani come quelli degli altri, canzoni in grado di scorrere nelle vene della gente per poi innalzarsi in cerca della bellezza: “una canzone è qualcosa che può camminare da sola “, scrisse Dylan tanti anni fa.

 

E poi la voce. “Quel ragazzo ha una gran voce”, aveva detto Woody. Eppure in tanti, dopo, l’avevano criticata. “Sostengono che non so cantare, che gracchio come una rana. Perché non lo dicono di Tom Waits? – si lamenta oggi Dylan – Che la mia voce è andata, che non ho più voce. Perché non lo dicono di Leonard Cohen? Che non so seguire la melodia. Davvero? Non l’ho mai sentito dire di Lou Reed. Perché lui l’ha fatta franca?”. “Le voci – aggiunge – non devono essere giudicate per quanto sono belle, quello che conta è se ti convincono che stanno dicendo la verità”.

E’ davvero così. E non è vero, invece, che Dylan non abbia voce: non lo è soprattutto ora. Fallen Angelsè un disco dove l’attenzione al fraseggio ed alla melodia giunge a vertici assoluti. Musicalmente l’album è un diretto discendente del precedente Shadows In The Night, costruito sul suono essenziale della band con la quale l’artista americano si esibisce dal vivo da diversi anni, basato sulla pedal steel guitar ed il violino di Donnie Herron e sui ricami chitarristici di Charlie Sexton, sostenuti solo in sottofondo dal contrabbasso e dalle percussioni di Tony Garnier e George Receli. 

Gli arrangiamenti originali di questi brani prevedevano fino a trenta strumenti, ma qui si respira ugualmente un’atmosfera soffusa, raffinata, solenne senza che ci sia bisogno di un’orchestra. “Quello che dovevamo fare era arrivare al cuore di quello che rende vive queste canzoni”, ha detto Dylan ed è indubbio che in qualche modo ci si sia riusciti. Sono canzoni che affascinano e inquietano allo stesso tempo, suscitano gioia e malinconia, standard della musica pop e jazz americana, e quindi canzoni popolari, perché pescano di continuo da quell’universo della sfera umana che non smettono di rappresentare. Brani celebri riportati alla luce, rivestiti di nuova dignità e splendore: “che brutta parola, cover, dice Dylan: “è un termine spregiativo. Cosa significa quando copri qualcosa? Che la nascondi? Non ho mai compreso quel termine”. 

Undici dei dodici brani presenti nel disco furono incisi da Sinatra ed alcuni rimasero a lungo dei best seller. E’ il caso di All The WayAll Or Nothing At Alle di Young At Heart, canzone, quest’ultima, che dette il titolo ad un film con lo stesso Sinatra e Doris Day. Splendida è l’introduzione strumentale di Polka Dots And Moonbeams, in cui la steel guitar di Herron sembra introdurci realmente in una sala da ballo prima che Dylan attacchi col primo verso della canzone. In That Old Black Magic, resa celebre da Glenn Miller, appare altrettanto efficace il ritmo che le percussioni e la chitarra impongono al fraseggio del cantante, così come in Skylarkgli arpeggi di Charlie Sexton colorano addirittura di sfumature country quello che è sempre stato uno standard della musica jazz. 

Languida e magnifica è Melancholy Mood, già comparsa da qualche mese nei concerti di Dylan, spesso uno dei momenti più intensi di ogni show. Deliziose, infine, On A Little Street In Singaporee la classicissima It Had To Be You, cantata da Dylan più lentamente rispetto alla versione resa celebre dal film “Harry ti presento Sally”, ma altrettanto efficace. Ci si trova ad ascoltare questo disco piacevolmente, senza soluzione di continuità, sino a dimenticarci, alla fine se si tratti di classici di Dylan, di Sinatra o di chiunque altro. Perché – come scrisse Jesus Carrascosa – “i canti sono i loro autori e tante volte sono più grandi di essi, perché vivono nel cuore del popolo a cui gli stessi cantautori appartengono”.

 

Un giorno Claudio Chieffo, indimenticabile autore di canzoni che hanno attraversato il cuore di tante persone, disse che Dylan è “il grande”. E che “è grande perché è un genio, un genio del bene con una passione per la verità della sua vita che traspare da ogni canzone”. “La domanda di Bob Dylan non è retorica, è una domanda vera. Per questo – suggeriva – quando esce un bel disco di Dylan vale la pena di ascoltarlo”. 

E’ questo il motivo per cui lasciarsi sfuggire Fallen Angelssarebbe un vero peccato. Così come, quando capiterà dalle nostre parti, sarà meglio non perdere l’occasione di andare ad ascoltare di nuovo le sue canzoni. Per incontrare quella voce sempre nuova, il suono della band, le luci soffuse di un teatro che, come d’incanto, ti gettano nella dolce New York dei tempi andati. 

E per goderci la rappresentazione di un artista che non ha mai smesso di camminare dritto per la sua strada e di chiedere alla vita di non risparmiargli la ferita che procura il desiderio di afferrarne il mistero. Solo una cosa sarà meglio non fare, neppure nella mente. Contestarlo, gettando su di lui le nostre stesse incertezze. Per poi accusarlo di tradimento, gridargli “Giuda!”, come fece il famoso ragazzo di Manchester nel 1966, quando lo vide arrivare sul palco della Free Trade Hall con la chitarra elettrica a tracolla. Meglio non farlo, per non correre il rischio di vedere Bob girarsi ancora una volta, deluso, verso i suoi musicisti. Magari chiedendogli, questa volta, di non suonare più “fuckin’ loud”, come fece quel giorno in Inghilterra, ma “slow” – piano – perché è questo ciò che lui non ha mai smesso di fare: una lenta, inesorabile marcia lungo la sua vita.

 “Sono nato lontano dal luogo dove sarei dovuto nascere. Così sono sulla strada che porta verso casa”, aveva scritto un giorno. Che bello poterlo fare tutti quanti, angeli caduti che non si stancano di rialzarsi e proseguire a camminare. Insieme attraverso la vita, in compagnia della magia delle nostre canzoni.