Heiner Goebbels mette in scena il suono. La storia non è rilevante. Non c’è. Oppure ce ne sono tante che si svolgono contemporaneamente. Lo spettatore può scegliere in che direzione procedere, o anche di rimanere fermo a guardare dal di fuori. Arrivato il 27 maggio al Teatro Argentina in apertura del Fast Forward Festival (Fff), da vent’anni Schwarz auf Weiss (Nero su bianco), concepito per l’Ensemble Modern di Francoforte, girà il mondo portando con sè la fama del suo autore, tra i più eseguiti nel mondo.
In questo caso Goebbels non solo è compositore, ma anche regista di un lavoro su testi di testi di Edgar Allan Poe e Maurice Blanchot usati sia per il loro significato semantico, sia, soprattutto, come evento sonoro. Organizzato dal Teatro dell’Opera di Roma assieme ad altre istituzioni cittadine, il Fff propone in questi giorni una serie di lavori di musica, teatro e danza legati alla contemporaneità, restituendo la possibilità di entrare a contatto con linguaggi troppo spesso messi ai margini un po’ perché di difficile lettura, un po’ perché ci mettono di fronte con le nostre paure, debolezze: in una parola con la realtà.
E se la realtà è complessa  Goebbels si guarda bene dal dare risposte, però cerca di andare all’essenza delle cose. La scarnificazione del suono è totale: asciugando asciugando si va da una fanfara di ottoni a una sinusoide registrata, il suono più minimale possibile, che non esiste in natura e può essere generato solo elettronicamente. Proprio perché è un suono puro e in natura la purezza non esiste. L’Ensemble Modern ovviamente non è formato solo da ottoni, ma dispone di grandi solisti disposti anche a lasciare per qualche momento il proprio strumento e cimentarsi con un altro, componendo di volta in volta un’orchestra d’archi, o appunto una fanfara, magari concentrata su una sola nota.



Tutti insieme, ritmo ossessivo, quasi come una funeral and wedding band al seguito di una cerimonia: solo che anche se il funerale si svolge oggi nel feretro c’è qualcuno che è morto tanto tempo fa. “Voi che mi state leggendo siete ancora vivi, ma io che scrivo sarò da molto e molto tempo partito per la regione delle ombre, perché strani fatti accadranno, segreti saranno rivelati e molti secoli passeranno prima che queste mie pagine siano lette dagli uomini; e quando le avranno viste alcuni non vi presteranno fede, altri dubiteranno e solo pochi troveranno di che meditare su queste parole che sto tracciando con uno stilo di ferro”, scrive  Edgar Allan Poe ne L’ombra, una parabola, il testo che apre la performance. E forse è già tutto lì: noi siamo ancora vivi e possiamo provare a vivere con completezza. 



Viviamo allora, i violinisiti abbraccino gli ottoni, i flautisti duettino con i bollitori che fischiano sul fuoco in piena scena, i suonatori di kodo giapponesi si uniscano agli strumentisti occidentali e tutti insieme lancino palle da tennis sulle percussioni, che qualche suono esce se colpisci il bersaglio, e se sbagli mira pure il silenzio che ne deriva avrà la sua ragion d’essere.

Le scene e le luci di Jean Kalman disegnano uno spazio essenziale, in cui ogni elemento è significativo, non c’è niente di troppo. Il superfluo è bandito anche nei costumi Jasmin Andreae, che caratterizzano ognuno dei musicisti/personaggi senza avere bisogno di forzare troppo la mano. Alla fine crolla tutto, non poteva essere altrimenti, la scenografia non può resistere al peso della vita. Lo sapevamo già, Goebbels ce lo ha solo ricordato, e lo ha fatto come lo fanno i grandi artisti: dicendo solo quello che era assolutamente necessario