Vale la pena cominciare dal fondo. L’ultimo capitolo del libro “Passo d’uomo”, una lunga conversazione di Antonio Gnoli con Francesco De Gregori (Laterza, 234 pgg, 16 euro), si intitola “Il tempo non è passato invano”. Per la prima volta il cantautore romano parla a fondo del dramma che colpì la sua famiglia negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale,  quando lo zio Francesco De Gregori (stesso nome), comandante di formazioni partigiane “bianche”, quelle cioè cattoliche e liberali, fu ammazzato insieme ai suoi uomini dai partigiani comunisti in Friuli, in quelle settimane impazzite dove si cercava di far occupare quelle terre all’esercito del Maresciallo Tito eliminando ogni potenziale oppositore. Niente a che vedere con la lotta al fascismo. 



Un dramma personale, ma anche nazionale. De Gregori, per decenni uno dei simboli della sinistra italiana, ha sempre mantenuto un profondo riserbo sull’episodio, non per ragioni politiche, ma perché lui è così, un uomo riservato e di pensiero, che non corre dietro le bandiere di turno e non formula giudizi se non dopo aver approfondito ogni aspetto. Questa volta però De Gregori ne parla senza trattenere nulla, denunciando quel momento storico che ancora oggi è considerato un “intoppo”, cellule impazzite di una parte che non sbaglia mai: “Anche io sono convinto che la storia della Resistenza al di là delle provenienze sia stata monopolizzata dalla componente comunista” risponde a Gnoli che gli dice che “nei rapporti di forza tra le diverse componenti dell’antifascismo, la comunista è quella che alla fine ha distribuito le carte ideologiche e culturali”. 



E’ stato così, dice ancora De Gregori, che chi allora se non era comunista, era fascista per forza, anche se aveva combattuto in egual modo il fascismo: “Cos’era quel clima che si protrasse così a lungo da cancellare sia la componente cattolica che quella monarchica?” si chiede. De Gregori poi finalmente si toglie un sassolino dalle scarpe, citando il libro di Giorgio Bocca (“Storia dell’Italia partigiana”) in cui si accenna a suo zio definendolo “l’uomo sbagliato al posto sbagliato”. La retorica di una sinistra che non ha mai accettato il diverso in nome di una superiorità ideologica che non ammetteva confronti. De Gregori un giorno va da Bocca e gli chiede il perché di quel giudizio così tranchant su suo zio: “Suo zio non capì nulla della politica che ispirava ciò che poi è avvenuto” si sentì rispondere. Non aggiunse altro anche se ammise che il massacro della brigata Osoppo fu “un errore”. Commenta il cantautore: “La verità è che come storico della Resistenza Bocca non era diverso da tutti gli altri storici che hanno privilegiato una sola parte”. Fino alla grazia concessa da Sandro Pertini all’assassino dello zio, latitante in Cecoslovacchia. Per la famiglia De Gregori un doppio omicidio: “La verità è che quell’individuo non aveva mai espresso una sola parola di pentimento, anzi aveva rilasciato interviste pubbliche asserendo che nel clima di quegli anni quella cosa andava fatta. Forse Pertini avrebbe fatto meglio a giocare a scopone quel giorno e a non occuparsi di giustizia”. 



“Quello che mi piace immaginare è che (mio zio) – aggiunge De Gregori – sia morto sapendo di essere nel giusto, di essere al contrario di quello che affermava Bocca, l’uomo giusto al posto giusto”. Un dramma mai chiuso, ma accettato con dignità estrema: “So con sicurezza che sono orgoglioso di lui e fiero e felice di portare il suo nome”.

E’ il momento più straordinario di un De Gregori che probabilmente, dal punto di vista privato, si confessa come mai prima nella sua vita. 

Un libro rivelatorio dunque, che ha un limite, quello di essere impostato come una lunga intervista domanda e risposta, cosa che rende meno fascinosa la lettura, a volte l’appesantisce, a volte incastrandosi in lunghi monologhi dell’intervistatore (Antonio Gnoli, ex responsabile della pagina cultura di Repubblica) che lasciano perlpesso lo stesso intervistato. Fortunatamente De Gregori viaggia a latitudini opposte, e forse il segreto di questa sua inedita confessione sta proprio nel contrasto tra intervistatore e intervistato, dando modo al cantautore di presentarsi per quello che è: un uomo semplice che rifiuta qualunque approccio intellettuale a se stesso e al mondo.
Spettacolare in questo senso il capitolo Gesti d’artista in cui si indaga a lungo sull’opera d’arte e sulle chiavi per interpretarla: “Amo il suono, amo la luce e non sto a spaccare il capello in quattro. Non sto a chiedermi perché quella determinata opera sia stata realizzata quel certo anno piuttosto che l’anno prima o dieci anni dopo. Non me me frega niente. Mi arriva una certa sensazione che mi dà gioia? Questo è importante”. Superficialità? Tutt’altro. Quello che dimentica l’intervistatore è che si trova davanti un autore di canzoni, quelle cose che, come disse il critico americano Greil Marcus, “in tre minuti di durata contengono il mondo intero”: “Sono condizionato dal fatto che nel mio mestiere di cantante le cose le percepisco dal vivo. Tre minuti, la sera, davanti alla gente. E vedo come si consuma, come arde, come brucia, come si dissolve il piccolo mondo che ho creato”. Immagini stupende, queste. 

E allora non è un caso che De Gregori citi la poesia che più di tutte esprime lo stupore dell’uomo davanti all’Infinito e al Mistero, Il canto notturno di un pastore errante di Leopardi: “Io penso sempre al pastore che guarda la luna e si commuove. In fondo la mia vita è questa: cercare la luna e cercare altre persone che sanno guardarla e commuoversi”.

Più avanti nel libro dirà: “Quando un contadino del cinquecento si commuoveva davanti a una pala d’altare non solo esprimeva un bisogno religioso, ma riconosceva e dava un senso intimo alla bellezza. Io sono legato all’arte come commozione”. Per commuoversi bisogna avere un cuore: ecco un uomo vero, con il cuore gettato oltre le staccionate del razionalismo, dell’intellettualismo, dell’ideologia, che ha aperto il suo cuore alla sfida della vita.  

Ci sono altri momenti deliziosi in questo libro, ad esempio quando parla con affetto di suo fratello Luigi, la persona che per prima lo incoraggiò a scrivere canzoni (“Gigi insegue nella sua vita e con la sua arte una certa forma del mestiere di musicista che non prevede o non ammette certi scontri chiamali anche compromessi. E’ come se dicesse: questa è la mia strada e non cambio direzione perché altrimenti starei male. E’ questa moralità che mi ha trasmesso”) altri altri un po’ più noiosi. Si indaga a lungo sul modo di scrivere i testi, ma si parla poco di musica.

Si scopre, se c’era bisogno, un De Gregori che crede fortemente nel suo ruolo di musicista come artista, in una Italia dove la musica è per definizione “leggera” e dice cose che nessun collega ha mai avuto l’ardire di esprimere: “Ogni tanti mi domando perché lo Stato che sovvenziona il cinema o l’editoria, il teatro e la lirica, non sovvenzioni anche la musica leggera: pensano che siamo già troppo ricchi? Non è vero per tutti. Ci sono giovani esordienti, band emergenti, che avrebbero bisogno di un incoraggiamento anche economico per muovere i primi passi. Se lo si fa per un film o un balletto, perché non anche per un primo disco? Perché escludere a priori che perfino un disco possa essere di interesse culturale?”. Già, perché?

Alla fine in questo libro c’è un uomo nudo. Come diceva Bob Dylan, presente spessissimo in queste pagine: “You’re invisible now, you got no secrets to conceal”. Ve lo sareste mai aspettato da De Gregori?