“Senza pensarci troppo, lasciando scorrere il flusso (creativo). Kidsticks è questo tipo di disco”. Così Beth Orton definisce il suo nuovo lavoro discografico, a quattro anni di distanza dall’ultimo, Sugaring Seasons. I tempi lunghi sono qualcosa a cui la deliziosa cantautrice inglese ci ha abituati da sempre, quello a cui non ci aveva preparata era una svolta musicale clamorosa come questa.



Volendo dare un giudizio superficiale, si potrebbe dire che Beth Orton è tornata là dove aveva cominciato, cioè la musica elettronica. Co-prodotto insieme a Andrew Hung, membro del duo di elettronica inglese Fuck Buttons, Kidsticks è in realtà ben diverso dall’elettronica dei suoi esordi, quando  la Orton era la voce dei Chemical Brothers (nel singolo Where Do I Begin) o quando il suo primissimo cd, Superpinkymandy, venne prodotto da William Orbit con il quale lavorò anche nel progetto Strange Cargo, due singoli, tra cui una cover di John Martyn, Don’t Wanna Know ‘bout Evil. Se allora infatti l’intenzione di Orbit era quella di far prevalere una potenziale folksinger dalle doti vocali evidenti (cioè straordinarie) cucendole addosso un abito moderno, nel nuovo Kindersticks Beth Orotn fa quasi tutta da sola  facendo di tutto per nascondere quella eccezionale folksinger che poi nel corso degli anni era realmente sbocciata. Va detto poi che in Trailer Park, il suo vero debutto completo, prodotto da Andrew Weatherall, l’elettronica si coniugava in maniera magnificente con il folk: beat trip hop, elettronica d’atmosfera dettavano le linee con quanto andava in quel periodo nell’Inghilterra dell’acid psych rock dominato dai Primal Scream. Fu un matrimonio felice, travolgente, innovativo.



Per la prima volta invece la cantante ha composto i brani lavorando su una tastiera elettronica invece che con la chitarra acustica, lasciandosi prendere, come ha raccontato lei, da un flusso creativo improvvisato che ha colorato tutto di effetti synth e computerizzati, una specie di lunga trance musicale che alla fine lascia però solo profondamente annoiati. Ha ragione lei: quello che si ascolta è un flusso creativo certamente, ma quello che è difficile valutare è la qualità artistica di questo flusso. Le canzoni ci sono, eccome. Beth Orton continua a crescere a livello compositivo, la sua voce pure: profonda, sognante, mistica, vellutata, regala alcune delle sue performance più intense di sempre. Anche la cifra melodica è la sua, canzoni di una bellezza che hanno pochi paragoni, uno stile compositivo unico e originalissimo. E’ questo che l’ha resa la miglior cantautrice donna degli ultimi vent’anni. 



Peccato per i suoni. Che sono banali, come un bambino che si diverte a giocare a caso con una macchinetta elettronica, un synth trovato in cantina, suoni che cozzano e disturbano l’ascolto di molte belle canzoni canzoni (per la cronaca, due brani sono bruttissimi anche dal punto di vista compositivo: l’iniziale Snow, sorta di monotona litania da disco music anni 70, e 1973, canzoncina da infilare alla festa di compleanno di una discoteca di periferia). Suoni-che-non-sono-suoni che viaggiano per conto loro. L’elettronica, questo tipo di elettronica, è roba vecchia, datata, molto più di una chitarra acustica. Una chitarra acustica ti permette di reinventarti sempre, l’elettronica è una gabbia soffocante di già sentito. Lo stesso errore che ha fatto John Grant, un cantautore che ha molti punti in comune con Beth Orton. Ciascuna di queste canzoni avrebbe meritato ben altra cura, fosse stato un solo pianoforte o un”orchestra d’archi. Tant’è, lei ha voluto così. E’ un peccato perché brani come Moon o Dawnstar sono tra le cose più belle ed evocative da lei scritte. Per non dire di Petals, dove il suono, specie nel finale dove si incrociano chitarra e batteria finalmente con un senso, esplode come il soffitto di una abitazione in fiamme.

Kindersticks sottolinea quanto Beth Orotn sia un’artista sensibile e spontanea, coraggiosa, capace di rischiare, che fa ed esprime quello che sente il bisogno di esprimere, e davanti a questo ci leviamo il cappello. Quello che non si riesce a capire è come abbia potuto interrompere una strada artistica come quella che aveva intrapreso, passando dal bellissimo Trailer Park del 1999 che le valse l’etichetta di artista “folktronica” (folk più elettronica), fino al disco più bello inciso da una artista donna negli ultimi vent’anni, il capolavoro Central Reservation, sorta di Blood on the Tracks del terzo millennio, e arrivando a gemme che ci avevano fatto credere che Sandy Denny e il meglio del folk d’autore inglese dei primi anni 70 era tornato a vivere in forma smagliante, album come Comfort of Strangers e Sugaring Season (in quest’ultimo ci si poteva azzardare in alcuni casi a dire di aver ritrovato la Joni Mitchell di Blue). 

Quello di Beth Orton non era solo citazionismo, come si usa oggi da parte di molti artisti delle ultime generazioni, riprendere cioè quanto fatto in passato, perché Beth Orton aveva una cifra artistica di spessore originale difficilmente rintracciabile nelle colleghe della sua generazione, capace di scrivere e interpretare alcune delle più belle canzoni della musica di sempre, basti citare pezzi come Pass in Time, The Best Bit, Stolen Car, Countenance, Call Me the Breeze, Mystery, Last Leaves of Autumn.

A questo punto da lei in futuro potremo aspettarci qualunque cosa, l’ammiriamo lo stesso anche se ci mancherà la capacità di confortare l’ascoltatore che aveva in passato, quella qualità, come dicemmo una volta, unica, di “non farti sentire un’idiota perché non stai soffrendo come soffre l’artista”.

Parlando del nuovo disco in una intervista con il quotidiano inglese The Guardian, si capisce che difficilmente potremo avere indietro l’artista che abbiamo amato: “Quando frequentavo Bert Jansch (chitarrista dei Pentangle, uno dei massimi esponenti del folk revival inglese, oggi scomparso, nda) cercavo di imparare da lui ogni cosa, di dedicarmi seriamente al mio dovere. Questo disco è una reazione a quel periodo da cantautrice inglese, ero giunta a un punto in cui dovevo lasciarmela alle spalle e trovare un nuovo posto fisicamente e creativamente”. Buon viaggio, Beth.