Meglio dire subito che chi scrive è da tempo prevenuto riguardo agli Afterhours. Potrà sembrare un discorso snob ma per me sono rimasti il gruppo più interessante del rock italiano solamente fino al terzo disco, quel “Non è per sempre” che gli ha di fatto procurato un bel balzo in avanti in termini di popolarità. 



Li scoprii all’epoca e il doppio live tratto da quel tour mi folgorò in una maniera difficilmente ripetibile e da allora rimane uno dei miei punti di riferimento in termini di intensità distruttiva e talento melodico. 

Già il successivo “Quello che non c’è” mi deluse parecchio anche se adesso, soprattutto se paragonato a quel che è venuto dopo, lo considero un ottimo disco.



Ma è inutile dilungarsi troppo: da un punto di vista compositivo, a mio modesto parere, il gruppo milanese è da tempo in crisi profonda. Sono sempre riusciti a piazzare delle buone canzoni in ogni disco, hanno quasi centrato il bersaglio una volta (“Ballate per piccole iene” è un lavoro decisamente sopra la media) ma non hanno mai realizzato nulla di anche solo lontanamente accostabile alle prime tre indimenticabili uscite. 

Non è un caso forse che la tournée commemorativa di “Hai paura del buio?”, dove riproducevano il disco interamente, dall’inizio alla fine, abbia fatto risultare i consensi più alti da molti anni a questa parte. Potenza di un passato che ormai, non solo in questo caso, è più forte del presente. 



Ma ci sono stati anche dei terremoti, in casa Afterhours. Sono usciti due membri storici uno dopo l’altro, il batterista Giorgio Prette (che è addirittura uno di quelli che questo gruppo l’ha fondato) e il chitarrista Giorgio Ciccarelli. Se ne erano dette e viste di tutti i colori, si era parlato di un Manuel Agnelli sempre più padre e padrone, di un gruppo oramai allo sfascio, i meme ironici sui social avevano spopolato. 

Poi l’annuncio di due sostituti illustri come Fabio Rondanini dei Calibro 35, uno dei batteristi migliori in circolazione da noi e Stefano Pillia, talentuoso chitarrista dell’ultima incarnazione dei Massimo Volume, da tempo anche al servizio di mostri sacri come Mike Watt e Rokia Traorè. Gente con le palle, dunque. Che però, mi sbaglierò ma l’impressione è quella, tradisce un po’ l’idea del session man, del musicista di peso e di esperienza che proprio per il suo lungo curriculum e i suoi numerosi impegni, non potrà mai garantire la continuità sperata e contribuire a plasmare una nuova identità del gruppo. 

Sono considerazioni soggettive, comunque. C’è stato un tour lo scorso anno, nei teatri italiani, proprio per testare la nuova formazione. Non ci sono andato ma i commenti erano positivi e da più parti ho raccolto voci di un collettivo nuovamente affiatato e compatto. 

Di sicuro il primo lavoro in studio con questa formazione non l’hanno fatto così, tanto per timbrare il cartellino. Già il fatto di aver così tanto centellinato le uscite nella loro seconda parte di carriera (perché cinque dischi in sedici anni non sono tanti) non è cosa da trascurare. Significa che ci tengono, al di là del risultato, che soppesano le idee e cercano sempre di dare il meglio ogni volta. “Folfiri o Folfox” arriva dopo un lavoro come “Padania”, che aveva un concept molto forte, con l’idea di ricreare una sorta di versione italiana dell’immaginario straniante che partorì “Nebraska” di Bruce Springsteen (disco che Agnelli non ha mai nascosto essere tra i suoi preferiti). 

Questa volta l’urgenza è ancora maggiore: il frontman ha perso suo padre di recente, per un tumore e anche altri membri della band sono passati attraverso esperienze analoghe. A sentire lui, che ha rilasciato un lungo e toccante comunicato per spiegare la genesi di questo lavoro, “Folfiri o Folfox” (il titolo richiama due diversi trattamenti di chemioterapia) si è scritto praticamente da solo. 

 

Già dall’iniziale “Grande”, con la sua impostazione acustica che contrasta molto con un’interpretazione vocale urlata, quasi lancinante, si capisce che c’è dietro un’esigenza inedita: “Avevamo un patto io e te, l’hai tradito tu perché io diventassi grande”, canta Agnelli in uno degli ultimi versi. Perché perdere il padre, anche quando hai cinquant’anni e un mucchio di esperienze accumulate, è sempre un momento in cui ti rendi conto che hai attraversato una soglia, che sei diverso da quello che eri prima. 

Il disco ruota attorno a questi temi qui. C’è la sofferenza della perdita, che però non annienta ma viene compresa, metabolizzata, trasformata in desiderio, in amore, in forza per andare avanti. C’è la difficoltà del portare avanti un rapporto affettivo, il dramma della separazione, la volontà di annullare il ricordo dell’altro per recuperare se stessi (episodi come “Non voglio ricordare il tuo nome” o “Fa male solo la prima volta” sembrano andare a pescare da quelle parti). 

Ma c’è anche la rabbia per come vanno le cose nel nostro paese, una componente che potremmo chiamare “di denuncia” e che esce fuori piuttosto esplicitamente ne “Il mio popolo si fa”, che è stato anche il brano che abbiamo potuto ascoltare come singolo apripista. 

Un disco che è quindi lontano, come tematiche, da una certa musica rock, ma che è stato scritto con l’urgenza di raccontare, di aprire se stessi, anche con la consapevolezza che questi temi, a detta dello stesso Agnelli, da tempo non vengono più trattati nella musica (non è del tutto vero, come dimostrano gli ultimi dischi di Sufjan Stevens e dei Nothing, ad esempio). 

 

Ma un disco, purtroppo, non è fatto di soli testi. Anzi, direi che i testi, come ho già detto molte volte, sono proprio l’ultimo aspetto di un disco. Se ci sono, se raccontano cose interessanti ed esprimono la verità dell’esistenza, sicuramente contribuiscono al valore di un disco. In caso contrario, ad avere l’ultima parola sarà sempre e comunque la musica. 

E in questo caso, la musica non riesce a convincere, per lo meno non fino in fondo. Dopo “Ballate per piccole iene”, gli Afterhours sono sembrati quasi aver paura dei risultati ottenuti. Il timore di perdere fan storici, il non voler correre il rischio di ammorbidirsi eccessivamente, li ha forse condizionati nelle loro scelte future, al punto che i successivi due dischi, “I milanesi ammazzano il sabato” e “Padania”, li hanno visti accentuare la carica sperimentale e allontanarsi in parte dalla forma canzone e dalla scrittura di melodie vincenti, che era il dato che aveva garantito il successo del lavoro precedente. 

Sono solo supposizioni ovviamente, le motivazioni potrebbero essere state ben altre. Il problema è che in questo cambiamento, ad essere andata perduta è a mio parere proprio la vena compositiva. 

 

“Folfiri o Folfox”, dal canto suo, è meglio per almeno due motivi: presenta una band dal nuovo assetto, motivata ed entusiasta per questa nuova avventura, e parte da un’esperienza personale molto forte che desiderava essere raccontata. 

Questo ha provocato una febbre creativa che si è tradotta in un lavoro da più di un’ora di durata, suddiviso in due distinti cd (decisione saggia, che permette di spezzare l’ascolto e di concentrarsi meglio sulle singole parti). 

L’atmosfera è tesa dall’inizio alla fine, si avverte una sospensione palpabile, una irruenza comunicativa che rende questo disco fresco e spontaneo come non erano i due precedenti. 

Detto questo, la qualità media dei brani, spiace dirlo, non è altissima. La presenza di Stefano Pillia e la recente esperienza dell’altro chitarrista e membro fondatore Xabier Iriondo nei Bunuel, hanno evidentemente accentuato la vena sperimentale e “rumoristica” del loro songwriting. Le chitarre sono sporche come non mai, le distorsioni sature, c’è un brano come “San Miguel” che sembra guardare ad un certo nonsense alla Scott Walker mentre le inquietanti atmosfere degli Swans fanno capolino a tratti nella title track e nei due brani strumentali. 

 

Insomma, come ha già scritto Federico Guglielmi qualche settimana fa, se qualcuno poteva malignare un lavoro ammiccante ed accessibile, in modo da poter lanciare la nuova esperienza di Agnelli ad X Factor, dovrà prontamente ricredersi. Tra gli utenti medi di quel programma, probabilmente uno su mille sarà in grado di andare oltre la seconda traccia di questo disco. O forse nemmeno. 

Che sia quindi un disco coraggioso, musicalmente e liricamente parlando, questo è giusto ribadirlo. 

Persino i due singoli non sono di facile presa: “Il mio popolo si fa” è il solito assalto frontale in vecchio stile Afterhours ma gioca anche sulle dissonanze, sul volino straniato di Rodrigo D’Erasmo che si appoggia alle ritmiche, su un ritornello che più che coinvolgere disturba. 

“Non voglio ricordare il tuo nome”, che racconta con lucida e drammatica consapevolezza il dramma della separazione, ha una carica melodica maggiore e potrebbe anche essere inserita tra le grandi ballate degli Afterhours accanto a “Bianca” e “Vorrei una pelle splendida”, se non fosse che non riesce ad essere ugualmente ispirata. 

Funzionano meglio due brani canonici come “Fa male solo la prima volta” e “Né pani né pesci”, dove l’equilibrio tra potenza e melodia questa volta sembra avere innescato la scintilla. Oppure la ninnananna tenebrosa di “Noi non faremo niente”, che riconduce a certe cose di “Hai paura del buio?”. 

 

Due soli, i pezzi da novanta: la title track, che ha una struttura piuttosto articolata nonostante duri poco più di tre minuti, e che presenta un tappeto distorto di chitarre e violino sul quale la voce si staglia tenebrosa e quasi parlata: “So che la sanità può curare i suoi grandi numeri ma non me. E tu sei da sempre un ribelle ma morirai per un protocollo.” Il testo è molto forte ed è un atto di accusa ad una certa industrializzazione della sanità, che preserva il successo racchiudendolo nei grandi numeri ma che riduce il singolo paziente ad un mero dato statistico. 

Al centro c’è un break pianistico dove una voce distorta dagli effetti gorgoglia parole incomprensibili e l’effetto che si crea è per una volta in linea con ciò che ha reso grande questa band. 

Poi c’è “Se fossi il giudice”, forse l’highlight assoluto del disco e una delle canzoni più ispirate mai scritte da Manuel Agnelli. “Oggi svegliandomi ho realizzato che tutto il resto è stupido, voglio provare a vivere. Se io fossi il giudice mi inginocchierei, non ti farei domande, non chiederei perché. Ho smesso di nascondermi, mi riconoscerai. Cammino come un uomo e parlo come un uomo e non ho ali e volo via. Ognuno ha un modo di abbracciare il mondo. Il modo che ho è di soffrire fino in fondo.”. È interessante che il disco si concluda così, con una ballata in cui predominano le chitarre acustiche e il vìolino, con un cantato finalmente riconciliato con l’esistenza, non più tirato fino allo spasimo e affannato come in precedenza. 

Voler provare a vivere, capendo che l’unico modo di essere davvero liberi è, appunto “soffrire fino in fondo”, nella consapevolezza che il dolore, seppure “non è la destinazione”, come canta in “Grande”, è comunque uno strumento fondamentale che è dato all’essere umano per crescere. 

“Ti direi che il tuo male ora non ci troverà mai, non ci prenderà mai. Il tuo dolore ora non ci troverà mai, il tuo dolore non ci servirà più.” Così in “Oggi”, che apre il secondo cd. Se si può dire così, è perché quello stesso dolore è diventato ormai parte di noi e ci ha resi persone nuove. 

 

Non siamo di fronte agli Afterhours migliori di sempre e la strada per tornare a grandi livelli (ammesso che sia ancora possibile) appare ancora molto lunga. Eppure questa formazione, se dovesse alla fine rivelarsi stabile, potrebbe riservare qualche sorpresa. Di sicuro possiamo dire che dal vivo, a questo giro, meritano più che mai di essere visti. Chissà che poi i nuovi pezzi non acquistino qualche senso in più, ascoltati in quella veste…