Ci voleva una fascinosa texana dalla dizione suadente e quasi aristocratica per far piazza pulita delle impermeabili velleità e smanie del music business, di quell’ostinato subconscio in fiduciosa attesa della next big thing quando di big ormai c’è rimasto ben poco. La proposta musicale di Lera Lynn, trentunenne di Houston di stanza a Nashville, ci rassicura piuttosto del fatto che nei profondi anni dieci di questo ventunesimo secolo non è cosa da poco – anzi è già grasso che cola – uscirsene con disco di canzoni buone, a volte ottime. Come può arrivare a tanto oggi una coscienza d’artista libera e consapevole? Con un pizzico d’ironia, persino nella nuda evidenza di uno sfacelo esistenziale cui la stessa Lynn non sembra sottrarsi facendovi pure il verso. “You could say I’m the desperate kind” chiosa la nostra in Drive, uno dei pezzi chiave per la lettura complessiva del lavoro e una ideale prospettiva del Lynn-pensiero. Un tipo di disperazione sdoganata dalla stessa artista in un recente dialogo con Paste Magazine come “disperazione creativa che accompagna la vita del songwriter” definita come “at once the shittiest and best thing in the world”.
Lo stesso titolo del nuovo album “Resistor” è plurivalente. Allude ad un tempo al nome dello studio del produttore/chitarrista Joshua Grange (con il quale la Lynn si divide la maggior parte delle consegne), all’etichetta indipendente messa su dalla cantautrice, sia infine alla filosofia che sottende il disco sin dall’iniziale dichiarazione d’intenti dell’introduttiva Shape Shifter. E’ una Lynn ben distante dalla se stessa interprete di canzoni che tradiscono un latente mal di cover dell’esordio di “Have You Met Lera Lynn?”, che elude l’impasse di scrittura di un “Avenues” (2014) che lasciava intravedere a tratti (la sospirosa ballad Refrain) l’attuale crescita di autorevolezza. Che raccoglie in parte l’aura della incasinata heroine-singer da bar rivelatasi nella seconda stagione della crime tv series “True Detective”, sotto la supervisione lirica di Rosanne Cash e musicale di un T-Bone Burnett assurto da tempo a ruolo di feticcio-lasciapassare artistico.
Urban noir, gothic folk, next generation country, nuovo revival del cantautorato femminile di stampo esistenzialista, non importa. Lera Lynn modula nel microfono un mondo dove dolore, sorriso e crudeltà assumono una direzione imprendibile ed elusiva alla maniera dolce ed efferata delle espressioni artistiche più originali. Capace di partire con il perfetto surplace di una spigliata Shape Shifter che flirta con l’Aimee Mann frizzante di Backfire, di rincarare la dose con la dinamitarda e vagamente noir Drive, piazzandoci in mezzo senza preavviso una What You Done con le sue atmosfere fosche che ruotano intorno all’egemonia chitarristica delle frequenze baritonali.
Esaurita la vivace fiammata iniziale, Lera Lynn va in marcatura stretta sull’ascoltatore puntando tutto sull’emorragia della speranza quale presupposto necessario per la sua rinascita. Si lascia appena cullare dalla melodia anni ’60 di Cut and Burn per poi calarsi nelle oscurità quasi da esequie dell’anima di Run The Night. La fase centrale sciorina un uno-due che è un piccolo miracolo, prima con una For The Last Time, potenziale singolo che vive di un tono malinconico dall’appeal irresistibile alla maniera di una Crow. Poi con una Fade Into Black ammaliante nella sua epica sperdutezza di largo respiro tra verso, refrain e inciso di chitarra elettrica. Un autentico pezzo di bravura di questa generazione cantautorale in cerca d’autore.
E ancora alla patina tenebrosa di Slow Motion Countdown fa da contraltare una Scratch and Hiss con il suo beat scuro e sensuale che fa tanto racconto spionistico, prima di una chiusura che con il passo bluesy di Little Ruby congeda l’ascoltatore in una nota più alta e rilassata.