La magia continua e, a volte, si rinnova in modo inatteso: questo accade anche per la musica, anche quella di cui ogni tanto si perdono le tracce. L’esperienza didattico-antropologica della League of the crafty guitarists di Robert Fripp, fondata nel 1986 (e sospesa negli anni scorsi), è stata una forma insolita ed autorevole di scuola musicale in cui si mixavano formazione chitarristica e filosofie dell’io, partiture e tai-chi chuan. La League – dopo qualche anno di “dormienza” – è rinata recentemente ed ha preso, come la Fenice, nuove sembianze: la sua nuova identita è la Chamber Orchestra of Crafty Guitarists, un ensemble di trenta chitarristi (ma a Detroit in scena erano sessanta strumentisti) che mastro Fripp ha assemblato con puntiglio e sta conducendo in giro per le chiese, le cappelle, le cattedrali ed altri luoghi di culto degli Stati Uniti.
L’occasione è imperdibile per rivedere all’opera uno dei massimi strumentisti ed intellettuali della musica sperimentale (o dell’avanguardia rock, oppure ancora della dissezione del suono contemporaneo) nella sua forma più colta e cerebrale. Noncurante degli impegni che lo vedranno ancora in tour con la prossima formazione dei King Crimson (in autunno in concerto anche in Italia) Fripp ha assemblato la nuova formazione dei Crafty Guitarists con alcuni mesi di formazione diretta e si è poi presentato nella Harvest Bible Chapel di Chicago, impeccabile nel suo classico stile british (gilè grigiofumo e cravattina) a guidare un concerto in cui la musica sceglie di debordare dal suo aspetto squisitamente musicale, per farsi rappresentazione teatrale, piece di sperimentazione armonico-fisica capace di sprofondare a volte nel sottile rumorismo.
Controllo assoluto dello strumento, nessuno spazio per le emozioni “incontrollate”, distacco dal pubblico: queste le caratteristiche che Fripp impone al concerto e ai suoi concertisti. E inoltre: al pubblico il musicista britannico chiede espressamente di dimenticarsi smart phone e telefonini, foto e selfie, contribuendo e partecipando così alla serata con un silenzio da concerto di musica da camera.
Durante il concerto si deve ascoltare, ma anche guardare, mentre i componenti della Chamber League interpretano l’avvolgente succedersi di “Circulation”, “Eye of the needle”, “G Force”, “Hard Times” e “Intergalactic Boogie Express”. Durante la serata i componenti della League si lasciano e si uniscono, formando gruppi sonori, terzetti e quartetti complementari in una formazione variabile che assomiglia più a quella di un balletto, piuttosto che a quella di una band. I momenti lirici (“Asturias”, “All of Nothing” e soprattutto il “Prelude in C minor”) sono di delicatezza poetica impalpabile, mentre i momenti rumoristi (le differenti versioni del “Craft theme”) si avvicinano alla musica atonale.
Inutile cercare punti di contatto con altri mondi musicali, per cercare paragoni plausibili e comprensibili alla serata di cui si riporta la cronaca. Le chitarre di Fripp e compagni (a parte un nucleo di fedelissimi, gli altri sono stati arruolati negli ultimi 4 mesi; e come sempre la grande maggioranza suona Ovation, marchio chitarristico leggendario, ormai abbandonato dai più), si dispongono a cerchio all’interno dello spazio sacro dedicato al pubblico, poi ne fuoriescono circondandolo, producendo suoni e rumori, imitando prima il vento e poi simulando un vortice tempestoso nel loro inseguimento chitarristico a spirale.
Dal canto suo, solo una certa ironia impercettibile differenzia Fripp da Keith Jarrett e dagli altri profeti della musica perfetta: il chitarrista, infatti, se ne sta in disparte a fare il direttore nella penombra, mentre i suoi discepoli e adepti interpretano figure teatrali provate e riprovate con sottile divertimento. Poi il concerto finisce e i 30 della Chamber Orchestra se ne fuoriescono in fila indiana, lasciando nella Harvest Chapel silenzio, emozione ed un certo grado di riverbero sonoro nell’aria e negli sguardi sorridenti dei 200 spettatori. Ecco come si è reincarnata la Fenice di Fripp, fissa come uno sguardo di un ritratto di Durer, mossa come un Boccioni tecnicamente dinamico.
Non ci si può certo inventare o scoprire oggi l’insolita grandezza di questo chitarrista ormai 70enne, che ha aperto percorsi sperimentali e compositivi inusitati. Nel suo background primario non ci sono nè il blues ne il rock’n’roll, ma predominano la musica classica, la tradizione folk britannica e la composizione colta. Proprio questo gli ha sempre permesso una produzione d’avanguardia, ostica, ma nuova, cerebrale e ipnotica, sfuggevole ad ogni categoria. A questo punto si può solo attendere il ritorno on stage dei King Crimson – atteso da settembre – per vedere cosa si è sviluppato nel comparto frippetronico ed elettrico della mente di mister Fripp, che per l’occasione ha deciso di portare on stage una formazione che, superando le già rodate formazioni sperimentali precedenti con due bassi e due chitarre, ha deciso di puntare su un gruppo con due chitarre (lui e Jakko Jakszyk) e con tre batterie (Gavin Harrison, Jeremy Stacey e Pat Mastelotto).