Da quando sulle scene musicali irruppero personaggi come Bob Dylan o, per limitarci a casa nostra, Fabrizio De André si cominciò a disquisire se i cantanti potevano essere considerati poeti. Se è vero che dal punto di vista compositivo, come hanno spesso detto anche gli stessi cantanti, poesia e canzone usano tecniche diverse e incomparabili fra di loro, è anche vero che in antichità, ai tempi di Omero per intenderci, la poesia e il canto erano indissolubilmente legati. Sta di fatto che uno come Francesco De Gregori, spesso e volentieri definito il “poeta della canzone italiana” manda sempre a quel paese chi lo definisce così (“Ho i calli sulle dita, suono la chitarra, ti sembro un poeta?”), mentre il già citato Dylan da molti anni è candito al Nobel per la Letteratura. Allen Ginsberg una volta si spinse a dire che grazie a lui “la poesia è entrata nei juke box”. Probabilmente sarebbe meglio istituire un Nobel per la canzone, ma comunque la diatriba è sempre accesa e talvolta alcune canzoni di questi autori sono finiti su antologie scolastiche di poesia. E’ difficile però che il testo di una canzone, letto senza l’accompagnamento musicale, abbia la stessa efficacia di una poesia, a meno che non ti chiami Leonard Cohen che prima di incidere dischi aveva scritto diversi libri di poesia.
Davide Rondoni, poeta, scrittore, editorialista dalla lunga carriera, ha deciso di tagliare la testa al toro facendo, insieme a due giovani amici (il pianista e compositore Pietro Beltrani e il cantautore Francesco Picciano), un disco di poesie recitate e di canzoni. Ne nasce un vortice di parole, melodia e fascino. Si fanno chiamare Trio Bastardo, il che sottolinea già il senso dell’operazione, quello di una contaminazione spuria, bastarda appunto, tra poesia e canzone e il disco, che si intitola “Bastami, non bastarmi amore” ruota intorno a un concept preciso, l’amore e il mistero che esso suscita da sempre nel cuore dell’uomo.
L’amore non quello usa e getta delle tante canzoncine che ci ammorbano in televisione o sulla radio, ma piuttosto quella forza insopprimibile che ci caratterizza tutti a tutte le latitudini del globo, quella forza che Dante definiva “l’amor che move il sole e l’altre stelle” nella frase conclusiva della sua Commedia. Un Amore con la A maiuscola di cui in questo disco troviamo tracce ovunque: nell’innamorata, nella nave che salpa verso l’infinito, nelle parole che un padre rivolge al figlio, nella voce storta di un ubriaco e finanche nella terra da cui arrivano i tre, la Romagna. Quell’amore che spesso e volentieri cerchiamo di possedere e perciò distruggiamo, o ci scivola via fra le dita delle mani.
Il contrasto tra la voce del poeta, uomo maturo, che nella vita ne ha viste tante, la sua malinconia, e la voce giovane, dirompente, del cantante creano un apparente scontro che invece sottolinea le stagioni della vita e l’amore di ognuno.
Il disco alterna dunque canzoni a pezzi pianistici strumentali di grande struggimento, sorta di ponte di collegamento alle recitazione di Rondoni. Quello che ne fuoriesce è un viaggio, nella vita di ognuno.
“Amore muove”, delicata ballata pianistica con sottofondo di tastiere in modalità archi, basso e batteria, belle aperture vocali, apre il disco (verrà poi eseguita più avanti in versione solo voce e piano, molto più intensa) come una dichiarazione di intenti: “Cosa vuol dire avere un amore stragrande come il mare”; “amore mio come una freccia al cuore, amore muove non smette di andare”.
La successiva “Per un Dio che ride come un bambino” è più scanzonata e vivace, a volte sembra ricordare certe cose di Cesare Cremonini, quello attuale e maturo.
“Romagna”, senz’altro l’incisione più efficace, si apre con una intro pianistica classicheggiante e un inedito Rondoni cantante dialettale. E’ un canto da balera nell’ora di chiusura, sussurrato e dolorante, il pianoforte passa in modalità jazz, sembra di sentire una sorta di incrocio fra Fred Bongusto e Tom Waits, poi il canto diventa voce narrante. Anche la propria terra, la Romagna in questo caso, è amore: “Gli hotel aperti anche di inverno lungo il mare, cosa voglion dire, non sei di queste parti se non te lo chiedi mai”.
“Mio destino, mio dolce destino” è declamata dal poeta con un bel sottofondo pianistico jazz che poi diventa quasi una mazurca e a Rondoni si sostituisce il canto di Picciano, facendo diventare il pezzo una di quelle stralunate composizioni alla Paolo Conte.
“Alda” apre uno squarcio come una ferita nel tempo, l’atmosfera è quella degli anni 30 o 40, il mitico Quartetto Cetra avrebbe potuto farne una ottima versione.
“Amali più di me” è uno dei vertici poetici assoluti di Rondoni, una confessione nuda delle proprie incapacità di essere all’altezza di quanto la vita chiede e allora non resta che fare una cosa, affidare gli altri a Lui: “Dio ti sfido amali come non so fare io”. La batteria in sottofondo che batte come il pulsare di un cuore e l’ammissione: “io non so amare, fallo tu per me”.
Ci sono diversi strumentali dicevamo: “E poi torno da te” in questo senso è straordinariamente bella, piena di struggimento. Le note del pianoforte così antiche e remote, sembrano guidare in una stanza semi buia di un appartamento poco prima dello scoppio della Guerra mondiale, mondi che collidono, ricordi che permangono di cose mai veramente vissute, colonna sonora di rimpianto e ricordo. Così è anche l’altrettanto bella “Lugo 8.15 a.m.”, dove jazz e classica convivono e si alimentano.
Il disco si conclude con la poesia di “Clemente e le lucciole”, un dialogo tra padre e figlio, tra il rimpianto di un uomo che ha vissuto la sua vita fino in fondo e augura al figlio di fare altrettanto, una dolcezza stemperata dal realismo che la voce di Rondoni sa sempre imprimere ai suoi versi: “Non c’è curva senza sorpresa da scoprire” è l’augurio che resta come una carezza.