In alto a destra, sul palco del Carroponte c’è una pelle di tamburo con l’eloquente scritta: “Save a Soul Mission”. Salvare anime è sempre stata la vocazione più o meno dichiarata di Glen Hansard e dei suoi compagni di avventura e noi ci abbiamo sempre creduto in questo loro potere, tanto che anche questa sera siamo qui, a sfidare il caldo e le zanzare, incuranti del fatto che lo abbiamo già visto all’Alcatraz questo inverno e che, come hanno detto alcuni prima dell’inizio, “alla fine fa sempre lo stesso concerto”. 



Perché quando si tratta di Glen Hansard scatta sempre qualcosa di diverso. “Sto aggrappato a chi ha fede” canta alla fine di “Bird of Sorrow”, una versione da pelle d’oca, tirata ed intensissima, con le corde vocali portate fin quasi al punto di rottura. 

“Sto aggrappato a chi ha fede”, ma quale fede? La fede che la vita sia una cosa meravigliosa, anche quando è incomprensibile, anche quando ti mette a dura prova, anche quando torni a casa ancora elettrizzato da un concerto stupendo e scopri che al di là del Mediterraneo 41 persone hanno perso la vita nell’ennesimo, assurdo attentato. 



Avere fede, allora, non significa credere che il rock sia in grado da solo di salvarci la vita (questo non lo può fare, anche se molti lo hanno chiesto e molti ancora lo vorrebbero) ma che può metterci in contatto con Colui che la vita ce la può salvare per davvero. E questo, parola mia ma non solo, il rock è veramente in grado di farlo. 

Perché il rock ha a che fare con la vita e quindi, per forza di cose, anche con la Verità della vita stessa. E che Glen Hansard abbia a che fare con questa verità, lo si capisce subito. 

Lo si capisce nell’intenso crescendo di “You Will Become”, brano con cui sceglie di aprire lo show di questa sera, e dalla successiva “Winning Streak”, che è in tutto e per tutto una preghiera laica, un augurio di buon cammino a una persona che si ama. 



Il cantautore irlandese ormai è di casa dalle nostre parti, negli ultimi anni ha acquistato una popolarità sempre maggiore e anche se il Carroponte non si può proprio dire gremito in ogni ordine di posti, il pubblico è numeroso e lo segue con affetto ed entusiasmo. 

Al punto che verrebbe da pensare che lo conosciamo già, che sappiamo quanto è bravo e che ormai nulla potrà più stupirci. 

Invece rimaniamo ancora una volta incantati. 

Innanzitutto perché, a differenza di quanto accaduto questo inverno, lo show risulta più ordinato e strutturato. Meno numeri da cabaret, meno improvvisazioni e trovate da busker, ma molta più sostanza, più brani di repertorio e maggiore utilizzo della band da dieci elementi che lo accompagna in questo tour. 

Questo non vuol dire che sia stato un concerto freddo o professionale in modo distaccato. L’ex The Frames è una vera forza della natura, il suo entusiasmo e la sua simpatia non possono essere contenute. Assistiamo quindi ad alcuni dei suoi divertenti monologhi, come quando racconta di essersi accorto che l’Italia si era qualificata ai quarti di finale dell’Europeo dal boato che aveva sentito in albergo e dedica quindi simpaticamente “My Little Ruin” ai tifosi spagnoli; oppure quando ironizza sulla quantità di zanzare presenti (per la verità si era ancora in una giornata clemente), schiacciandone una durante l’esecuzione di un pezzo. E non sono mancate neppure le goliardate in pieno stile “Juke Box umano”: subito dopo “This Gift”, il brano che di solito conclude il Main Set e dà il via ai bis, viene subissato di richieste da parte del pubblico, che urla qualunque titolo di canzone gli venga in mente, siano esse cover o brani originali. 

Lui fa finta di niente e si limita a sussurrare un laconico “Ci sono così tante canzoni da suonare”, mentre continua ad accordare la chitarra. Poi, cercando di mantenersi il più serio possibile, attacca  “I Believe I Can Fly” e poi si lancia in una “I Will Survive” che parte in punta di piedi, ma che esplode quando la band al completo, dapprima timidamente, gli va dietro al gran completo provocando il delirio totale tra il pubblico. 

Ma il Glen Hansard di questa sera ci ha sorpreso anche nella componente strettamente musicale dello show. 

Che al momento sia uno dei più grandi performer in circolazione, non è assolutamente da mettere in dubbio. Eppure, ogni volta che lo si vede si rimane a bocca aperta, non se ne può fare a meno. Perché anni e anni passati in strada, a suonare qualsiasi cosa in ogni condizione possibile, lo hanno educato ad una cura e ad un’intensità della performance che davvero non si può descrivere. 

Così non lascia prigionieri quando esegue pezzi altrui: la sua versione di “Astral Weeks”, immortale brano di Van Morrison, è stato uno dei punti più alti del concerto ma quando nel finale è arrivata “Don’t You Do It” di Marvin Gaye (nella versione di The Band), un tripudio di rock e soul talmente energico che anche l’erba del prato si è messa a ballare, abbiamo capito che se anche un certo Bruce Springsteen farà molto parlare di sé nei prossimi giorni, questa sera non abbiamo assistito a nulla che fosse davvero inferiore. 

Merito, oltre alle indiscusse doti di Hansard, anche di una band di prima scelta che mescola fiati, archi e pianoforte, in un connubio irresistibile che già Paolo Vites dopo il memorabile show milanese del febbraio 2013, aveva paragonato alla celeberrima Caledonia Soul Orchestra di Van Morrison (che non a caso è una delle influenze principali nel songbook del nostro). 

Quando sono lasciati liberi di crescere e di esplodere, questi musicisti sono una forza della natura, come si vede nella già citata “Bird of Sorrow” (per chi scrive uno dei brani più riusciti del repertorio solista di Hansard), nelle bordate rock blues di “Way Back in the Way Back When” e di “Didn’t He Ramble” o nel tripudio gospel di “Her Mercy”.

Ma quando si presenta da solo con la sua chitarra acustica, completamente privo di accompagnamento, non è da meno in quanto ad intensità emozionale: “Say To Me Now” e “Stay The Road” provengono da due periodi completamente diversi (la prima è uno dei temi portanti della colonna sonora di “Once”, l’altra chiude il suo ultimo album) ma vengono eseguite insieme, quasi fuse l’una nell’altra, ed il risultato è da pelle d’oca. 

Tanto che, per una volta, non si sente gente urlare, chiacchierare, usare i telefonini. Per una volta sono tutti ipnotizzati, segno che la vera grandezza ha a che fare con la verità, si impone senza fare troppe storie. 

 

Ancora una volta ci ha conquistati, dunque. Perché si ha sempre l’impressione, con uno come lui, che sia un amico che ti abbia invitato a casa sua, più che un musicista di cui sei venuto a vedere un concerto. 

Tanto che la serata si conclude a microfoni spenti, sul palco principale del Carroponte (quello che viene usato solo nelle grandi occasioni), con la band al completo che, senza strumenti, intona prima “Passing Through” e poi “The Auld Triangle”, in un’atmosfera intima e informale, davanti a quei pochi fortunati che ancora non si erano avviati verso l’uscita. 

 

Magari non sarà in grado di salvare l’anima, ma un concerto di Glen Hansard è in grado di farti andare a casa felice, consapevole che l’anima, per non cedere alla disperazione e alla sconfitta, ha bisogno anche di momenti come questo.