Difficile oggi riconoscere in questo gigante corpulento lo scattante animale da palcoscenico che avevamo ammirato sul grande schermo, nel film Concert for Bangladesh, o anche in Mad Dogs and the Englishmen, film meno noto in Italia ma altrettanto esaltante. Leon Russell è stato uno dei più straordinari musicisti e innovatori della storia del rock, spesso a fianco di George Harrison, Dylan, Clapton e Joe Cocker, forgiatore del cosiddetto country soul, miscela esplosiva di musica autenticamente “sudista”.



Ha scritto canzoni per sé e per altri, specie negli anni ’70, e ha suonato praticamente con tutti, da Joe Cocker a Tina Turner, B.B. King, perfino Barbra Streisand e Frank Sinatra. Fra le altre, è l’autore di “This masquerade”, resa famosa da George Benson, e Delta Lady, incisa in Italia anche da Mina. Oggi è anziano, i lunghissimi capelli bianchi e l’altrettanto lunga barba, i segni di una vita all’eccesso, ma ancora tanta capacità di fare musica esaltante.



Leon Russel entra in scena allo allo Yoshi’s, storico jazz club di Oakland nella baia di San Francisco, usando una canzone d’ingresso, un po’ come i combattenti dell’ultimate fighting. La sua è l’introduzione (archi e chitarra) a “Where the streets have no name” degli U2. La figura è appesantita, il passo incerto appoggiato ad un bastone, l’aspetto di uno che non vede una forbice da anni. Appena si siede al piano l’intro finisce e  sorprendentemente data l’impressione di decadenza fisica, partono i fuochi d’artificio.  

La band all’osso, batteria, basso chitarra e lui. L’energia è contagiosa. Nessuno, nel generalmente compassato jazz club riesce a stare fermo a sentire che ha una donna, su in città, che è buona con lui (vecchio successo di Ray Charles, “I’ve got a woman”, solo che la versione di Russell è ovviamente più esplosiva).  L’età media del pubblico è sull’orlo della pensione ma ci sono alcuni tavoli di giovani, che dall’aspetto sono probabilmente dei nere dalla vicina università di Berkeley, di quelli che non si accontentano di quello che passa il convento contemporaneo. Chi l’ha presentato, ha introdotto il concerto come “una master class di storia del rock&roll”, ed ha ragione. Leon sciorina una serie di successi di altri e suoi. 



Ben presto arriva “Stranger in a strange land”, la sua e di Don Preston, non quella degli Iron Maiden. Nella scaletta mette anche dei “crowd pleasers” tipo “Papa was a rolling stone” dei Temptations. Ogni tanto frammezza con qualche aneddoto, appunto, di storia del rock’: “Quel venerdì pomeriggio me ne stavo tranquillo a guardarmi la mia soap opera (detto con un ghigno) quando suona il telefono e dico “George!” e spiega come è nato il concerto per il Bangla Desh. Oppure quando descrive un ragazzo un po’ introverso che era seduto in un angolo e non parlava con nessuno, e di cui ha poi deciso di adottare una canzone, e parte con “A hard rain is gonna fall”, o quando racconta di quella volta che B.B. King si è commosso mentre provavano insieme.  

Ora che arriva a “Delta lady”, “This song is for you” e “Hummingbird” ci ha già conquistati tutti. Quando si arriva alla fine dice: “Questo è il punto in cui ci alziamo e andiamo via, voi continuate ad applaudire e far casino, dopo di ché, inaspettatamente, ritorniamo e facciamo ancora un pezzo”. 

Pro-forma, si alza dal pianoforte e spiega: “Chi mi conosce sa che camminare non mi riesce bene, immaginate che sia già andato e tornato”. Si siede e parte con una versione particolarmente elettrizzante di “Roll over Beethoven”. Il vecchio leone è zoppo, ma ruggisce ancora.

 

(Franco Reguzzoni)