Forse risulterebbe eccessivo dire che l’Italia finalmente ha il proprio festival internazionale, ma è indubbio che qualcosa potrebbe essersi mosso.
Il Festival Moderno, una scommessa della Radar Concerti in collaborazione con il Circolo Magnolia di Milano, è stato infatti un tentativo coraggioso (e pienamente riuscito, vista l’affluenza di pubblico) di portare nel nostro paese quanto di meglio c’è all’interno dell’odierno panorama pop internazionale.
Forse non sarà ancora così evidente, ma il contrasto tra “Indie” e “Mainstream” che ha ammorbato il mondo musicale almeno dall’uscita di “Sgt. Pepper”, potrebbe essere superato.
Gli artisti in cartellone al Magnolia, infatti, non sono ancora così celebri da riempire gli stadi e da far parlare di sé le riviste di gossip (molti di loro non raggiungeranno mai questi livelli) ma hanno tutte le carte in regola per piacere al grande pubblico e per essere additati a nuovi nomi di riferimento della scena.
Quando parliamo di musica pop, dunque, oggi parliamo anche di loro e il tentativo di organizzare una manifestazione dove vederli suonare tutti insieme è indubbiamente un modo per farci capire a che punto siamo arrivati.
E la cosa che colpisce di più, oltre al numero di persone che hanno aderito all’iniziativa (molte di queste provenienti dall’estero), è la tipologia del pubblico presente: pochissimi hipster o “Indie fighetti” che sembrano fatti con lo stampino e che danno l’impressione di essere lì solo per prendere parte ad un evento cool, bensì un’audience fortemente caratterizzata, vestita in modo stravagante e appariscente, totalmente identificata con gli artisti che è venuta a vedere. Questo ha contribuito in maniera decisiva a creare un’atmosfera fresca e variegata, per nulla uniforme.
Gli artisti in programma sono tanti e si esibiscono su tre palchi differenti, per cui è impossibile riuscire a vedere tutto e per forza di cose bisogna fare delle scelte.
Arrivo proprio nel momento in cui Giungla ha iniziato il proprio set. La ragazza di Bologna ha da poco pubblicato il suo ep d’esordio, “Camo”, per la neonata etichetta Factory Flaws e sta riscuotendo notevoli consensi, anche al di fuori dei nostri confini.
Il suo è un pop infarcito di Electro Wave, certamente derivativo (lo spettro di Blondie aleggia in più di un’occasione) ma fortemente accattivante, grazie ad una scrittura di buon livello.
Sul palco è da sola, imbraccia una chitarra dal suono saturo e per il resto si aiuta con le basi. Si muove bene, ha presenza e personalità e se avesse un’intera band a supporto l’asticella della qualità si alzerebbe ancora di più.
Subito dopo è il turno di Hana, monicker del nuovo progetto di Hana Pestle, cantautrice e produttrice di Billings, Montana, che ha una carriera già piuttosto consistente alle spalle ma che da quest’anno ha deciso di ripartire da zero pubblicando un ep di cinque pezzi che l’ha condotta totalmente su un altro terreno.
Ha ricevuto un endorsement di tutto livello da Lorde, con la cantante neozelandese che ha definito senza mezzi termini il singolo “Clay” come uno dei migliori brani che abbia mai ascoltato di recente.
Le sue canzoni si muovono in effetti sulla stessa falsariga, un Pop raffinato ed elegante, forse un po’ più d’atmosfera rispetto a quello dell’autrice di “Royals”.
Dal vivo si muove benissimo, aiutata da un aspetto fisico più che piacevole e da una presenza scenica davvero di gran livello. A tratti ricorda nelle movenze e nello stile vocale Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins anche se la sua proposta vira verso un sound più patinato, come dimostra anche l’ottima rilettura del classico degli Eurythmics “Here Comes The Rain Again”.
Nuova pausa e fugace tentativo di incursione in uno dei palchi secondari, dove si sta esibendo Aristophanes, artista taiwanese che è apparsa anche sull’ultimo disco di Grimes ma che, a giudicare da quel poco che sentiamo, non attira molto la nostra attenzione.
Meglio dunque tornare sul palco principale dove sono già arrivati i Sofi Tukker. Si tratta di un duo che ha base a New York anche se in realtà Sofi, la voce femminile, è di origini portoghesi.
Hanno da poco pubblicato un singolo, “Drinkee”, che è già diventato un tormentone e che dovrebbe costituire la title track di un ep che sarà pubblicato a breve.
Dal vivo sono divertentissimi, soprattutto per la simpatia contagiosa di Sofi (che in verità ha dalla sua anche altre doti per attirare l’attenzione), fanno un uso massiccio delle basi ma non disdegnano anche basso e chitarra in certe occasioni, divertendo inoltre con un particolare strumento a percussioni da loro inventato, per certi versi simile ad uno xilofono ma di forma circolare.
Musicalmente spaziano molto, muovendosi tra la techno e la dance più ruffiana, con qualche reminiscenza dei Crystal Castle e addirittura accenni New Wave. Possono apparire eccessivi, forse addirittura irriverenti, ma la verità è che si divertono e fanno divertire, cosa fondamentale per questo tipo di proposta. E poi le canzoni le hanno, anche se devono sicuramente imparare a metterle più a fuoco. Attendiamo con curiosità il lavoro in studio per un giudizio più ampio.
Blood Orange è, assieme a Grimes, il vero piatto forte di questa line up. Devonté Hynes è nato in Inghilterra ma da tempo ormai vive a New York. Originario per parte di madre della Guyana, paese che ha recentemente riscoperto all’interno del video di “Chamakay”, dove lo si vede incontrare la nonna e altri parenti, ha avuto una vocazione artistica precoce ed un lungo e travagliato percorso per vedersi accettato in quanto nero e omosessuale in una delle zone più povere e socialmente difficili della Gran Bretagna. Il suo genio poliedrico lo ha portato a creare due progetti in rapida successione, Test Icicles e Lightspeed Champion, oltre che a lavorare con nomi importantissimi della scena Pop come FKA Twigs, Sky Ferreira, Grizzly Bear, Florence and The Machine e molti altri.
Blood Orange, il monicker che identifica la sua nuova creatura musicale, è attivo da cinque anni ed è giunto con “Freetown Sound” al terzo lavoro in studio.
Dal vivo è incredibile: si presenta con una band di cinque elementi comprensiva di corista e sassofono, ed incanta tutti con il suo Soul da manuale, degno erede delle cose migliori di Stevie Wonder e Chic.
Un sound, se vogliamo, derivativo (“sembra di essere finiti direttamente nel 1977”, mi ha giustamente fatto notare uno degli amici che erano con me) ma assolutamente incantevole, anche e soprattutto perché Hynes sul palco è un fenomeno, sia dal punto di vista vocale che da quello scenico, e quando si siede da solo alla tastiera aggiunge ulteriore magia a quello che sta già facendo.
La maggior parte del pubblico è già assiepata per Grimes ma l’ora secca di esibizione che la precede non può essere ignorata e gli applausi arrivano copiosi ed entusiasti, seppure sia evidente che pochissimi lo conoscevano.
Ne hanno già parlato come il nuovo Michael Jackson: probabilmente siamo su coordinate musicali diverse ma è indubbio che per Blood Orange si prepari un futuro di sicuro successo. Se lo merita e speriamo davvero che accada.
Sinceramente non mi aspettavo di trovare tutto questo pienone per Claire Boucher, in arte Grimes. La giovane artista canadese sta vivendo un vero e proprio boom mediatico a seguito della pubblicazione del suo quarto disco, “Art Angels”, già acclamato tra i migliori dell’anno, al punto che quest’anno sta girando tutti i più importanti festival estivi.
L’Italia però è da sempre un paese del terzo mondo dal punto di vista musicale e pensavo che del talento di questa ragazza non si fossero accorti in molti.
Per fortuna non è così: il palco principale risulta gremito in ogni ordine di posti e si fatica a trovare spazio vitale. È una cosa positiva, ovviamente, soprattutto perché i giovani sono tanti, a dimostrazione del fatto che forse non siamo messi così male come si pensava.
La Boucher si presenta sulle note di “Realiti”, il brano che aveva scritto per Rhianna e che l’artista di Barbados ha inspiegabilmente rifiutato. Già, perché l’impressione è proprio questa: se uno qualsiasi dei brani di “Art Angels” fosse stato inciso da Madonna, Beyoncé o da qualche altro grande nome del Pop mondiale, noi ora questa ragazza la andremmo a vedere San Siro. E se fosse nata vent’anni prima, avrebbe forse spaccato le classifiche come nessun altro prima.
Perché le doti le ha e quel che accade sul palco è bellissimo: si presenta senza una band di supporto, anche lei affidandosi completamente alle basi, suonando ogni tanto la chitarra e qualche linea di Synth.
Al suo fianco ci sono due ballerine che si producono in coreografie non curatissime ma comunque efficaci e poi Hana Pestle, che le dà una grossa mano con le voci, ballando e ogni tanto suonando la chitarra.
Claire Boucher dal vivo è un autentico spettacolo: agghindata con abiti da lei disegnati, look a metà tra un folletto e un alieno, si muove in maniera irresistibile mangiandosi letteralmente il palcoscenico e provocando il delirio tra il pubblico.
La sua voce è stranissima, sottile, quasi da bambina, motivo per il quale, soprattutto in studio, fa abbondante uso di effetti. Quando parla, tra una canzone e l’altra, quasi imbarazzata per l’entusiasmo del pubblico, fa sorridere perché si capisce che quell’atteggiamento vagamente schizzato che la contraddistingue non è per nulla studiato ma è totale espressione del suo modo di essere.
Lo spettacolo non è lungo ma è molto intenso, privilegia i brani dell’ultimo “Art Angels” con qualche incursione ben riuscita nel vecchio repertorio (“Be a Body”, “Go”, “Oblivion”) e vede anche la divertita partecipazione di Aristophanes, che la raggiunge sul palco per l’esecuzione di “Scream”, il brano a cui aveva prestato la sua voce in studio.
Nel finale arriva anche una interessante versione Electro Pop dell’Ave Maria di Schubert, che potrebbe sembrare dissacrante ma che in realtà pare semplicemente l’omaggio ad una tradizione alla quale la Boucher di fatto appartiene, pur non collegandosi ad essa direttamente.
Il pubblico, per tutta la durata dello show, salta, balla e canta tutte le canzoni a memoria: una dimostrazione di affetto e dedizione straordinaria che è la prova del fatto che la musica di Grimes ha attecchito definitivamente anche da noi.
Oggi come oggi Claire Boucher è quanto di meglio si possa trovare nella nuova scena Pop. Se tra qualche anno la troveremo in contesti ben più grandi non ci sarà da stupirsi più di tanto.
Il successo di questa prima edizione di Festival Moderno non deve passare inosservato. La musica del futuro passa anche da qui, da questi artisti che potrebbero apparire di un altro pianeta, se paragonati a ciò che normalmente viene ascoltato da chi si occupa di rock e pop indipendente. Certo, si potrebbero fare tutta una serie di discorsi sul fatto che di suonato c’è poco, che le basi sono troppe e che in questo modo è difficile valutare l’effettivo bravura di un artista.
Può essere vero e di sicuro sono io il primo a desiderare che l’elettronica possa essere sempre di più “suonata” anche dal vivo, senza fare ricorso a parti preregistrate. C’è qualcuno che lo fa ed è forse questo un fattore aggiunto per valutare l’effettiva bravura di un act.
Eppure, questa sera abbiamo visto che la musica è in evoluzione, che non sta per forza percorrendo sentieri mai battuti ma che ci sta dicendo delle cose che sarebbe stupido ignorare. Poi è tutta una questione di gusti, chiaro…