Il blues è, originariamente, un uomo e una chitarra. Un uomo che sulla sua chitarra parla, canta e suona narrando le fatiche della vita, e gli amori, e i tramonti, e le donne che l’hanno tradito. Il blues è la faccia del bluesmen mentre suona e canta, sono le dita, è il sudore che gocciola dalla fronte. Sono gli occhi come specchio del cuore e delle parole.



Per la sua serata finale, il DeltaBlues2016 di Rovigo (una delle manifestazioni più longeve del settore, rimasta coraggiosamente “integra”) ha portato in scena uno degli ultimi cavalieri di questo sacro blues, Doug MacLeod. E la scena è stato un palco insolito: un battello che ha attraversato per tre ore il delta del Po, da Porto Tolle verso il mare, in una citazione artistico fluviale del Mississippi, dal Delta alla Louisiana, come se il fiume delle “Muddy Waters” e dei tanti musicisti neri, fosse solo un padre ancestrale di quello che si riversa nel Mediterraneo.



66 anni, nato a New York (ma con una vita classicamente americana che lo ha portato a vivere in North Carolina e Missouri, prima dell’arruolamento in Marina Militare) Doug Macleod dopo anni di musica e collaborazioni, nell’ultimo decennio ha vissuto l’affermazione e il riconoscimento che gli spetta: alcuni Grammy Award come miglior artista blues acustico (da ascoltare: “Exactly like this”, “Live in Europe”), plauso e complimenti da ogni parte, autorevolezza acquisita per quel suo essere un bluesman fuori dal tempo, un bianco che ricorda i bluesman degli anni Venti e Trenta. Ed in effetti è una magia emozionale fuori dal tempo, quella che si vive ai suoi concerti. MacLeod suona e coccola una National guitar da maestro del fingerpicking, accompagnandosi (percussivamente) con il piede sinistro, alternando lentissimi gospel blues (“Find the Right Mind”) a velocissimi scatti boogie (“Raylene”).



Tra un blues e l’altro Doug parla e racconta, diverte e si diverte. Ad un suo amico sempre imbronciato consiglia di guardare le cose con occhi nuovi, ed eccolo avviarsi sulle note di “Brand New Eyes”, canzone-manifesto che dava il titolo ad uno dei suoi album più belli e significativi.

È la faccia di MacLeod, che bisogna guardare. Non è un mestierante, ma un artigiano: smorfie a occhi chiusi, ghigni improbabili mentre esagera con il bending sulle corde, occhi sgranati mentre usa la slide sulle note di “Dust my Broom”, unica cover dello show sul battello. Un viso che dice tutto di quella filosofia che lo stesso musicista da sempre abbraccia:” devi suonare solo le note che credi vere”.

Ogni canzone come fosse la prima. Ogni blues come se fosse l’ultimo. “Voi avete una grande fortuna”, dice verso la fine della navigazione, “perchè non esiste un mio concerto uguale al precedente: ogni mio concerto è unico, ogni interpretazione è differente da quella della sera prima. E comunque qui si fa blues e il blues non è mai una replica”.

“Io sono un singer-songwriter”, dice di se, “ma anche Robert Johnson, Son House, Charlie Patton, lo erano. Tutti i bluesman sono dei cantautori. E a tutti i cantautori piace raccontare storie”. Ed ecco allora la storia del giovane Doug che andava a nascondersi tra i boschi del Mississippi, appena fuori da Saint Louis, dove abitava. Guardava il sole tramontare sull’acqua. Li, in quel bosco sul fiume, era nata la voglia di suonare. Li era nato il desiderio di arruolarsi in marina. Sempre li aveva deciso di sposare la donna che amava. Il sole sta tramontando e il battello continua a navigare sul Po, tra lunghi canneti e casoni da pesca in legno. MacLeod ricorda che siamo tutti canoe che corrono sulla corrente, mentre il fiume è la vita che ci porta verso mari lontani e sconfinati. Prima di salpare, ci aveva detto: “il blues viene per meta dall’uomo e per meta da Dio”. E cosi attacca “Roll like a river”, aggiungendo strofe nuove alla sua canzone, inserendo parole acchiappate al volo mentre il sole si nasconde tra le rive e l’oscurita scende sul fiume. Da Saint Louis al Polesine il passo non è poi cosi lungo.

Doug MacLeod depone la chitarra, uno strumento nero di acciaio e legno, allarga il sorriso, si asciuga il sudore grondante, mentre arrivano le bottiglie di prosecco ghiacciato. Ecco il blues. Nella sua forma originaria.