Verso la fine del concerto, durante “Mr. November”, Matt Berninger scende tra il pubblico e si fa abbracciare dalle prime file. Rimane lì a lungo, prima di andare sotto le tribune e di correre nuovamente in mezzo alla folla nel corso della successiva “Terrible Love”, facendo impazzire non poco i tizi della security, che forse non si aspettavano una mossa del genere. 



Stare a stretto contatto con la gente per cercare di esorcizzare i propri demoni personali? Può anche darsi, considerate le vicende che il cantante ha avuto in passato con l’alcol. E dopotutto Bono diceva che se sei sano di mente non hai bisogno di avere ogni sera migliaia di persone che gridano di amarti.  

Ad ogni modo i The National sono arrivati nuovamente in Italia a portare le loro visioni cupe, le loro malinconie personali, e la gente ha risposto numerosa. Non c’è un nuovo disco da promuovere a questo giro, perché “Trouble Will Find Me” è uscito da tre anni ed è stato già portato  abbondantemente anche da noi. 



Negli ultimi mesi la band americana è stata impegnata a compilare il monumentale album tributo ai Grateful Dead, progetto nel quale hanno coinvolto moltissimi dei loro colleghi, ma ha trovato anche il tempo, tra un side project e un lavoro di produzione,  per scrivere parecchio materiale nuovo, ed è evidente che lo scopo di questi concerti è anche di saggiarne la resa live prima di tornare in studio a registrare. 

Pistoia è un’altra meravigliosa piazza per organizzare concerti: il complesso del Duomo e del Battistero offre una cornice meravigliosa per chi suona e per chi ascolta e anche se continueremo a deplorare il modo con cui viene messa insieme la line up del Pistoia Blues (passare da Mika agli Skunk Anansie, da Damien Rice, ai Whitesnake, è spiegabile solo col criterio di voler fare soldi facili con ciò che va per la maggiore), non si può evitare di andarci, quando ci sono degli artisti che meritano davvero. 



E la band dei fratelli Dessner e Devendorf (unico gruppo al mondo in cui milita una doppia coppia di gemelli, immagino) è al momento ciò che di meglio si possa trovare all’interno della scena rock. È la solita questione: esiste, subito al di sotto delle vecchie glorie, qualche act in grado di reggere lo scettro quando questi non ci saranno più? 

I The National, assieme ai Wilco e agli Arcade Fire, sono sicuramente tra questi. Hanno una cosa in comune, questi tre gruppi: che sono partiti dalla grande tradizione della canzone americana ma l’hanno poi svecchiata e trasformata in modo da renderla un qualcosa di completamente diverso, più al passo coi tempi ma che allo stesso tempo non ha perso lo spessore dei suoni e dei contenuti. 

È musica alternativa, per dirla volgarmente, ma si sente che non arriva dal nulla. Nel caso dei The National poi, essa è declinata nella forma del crooning più cupo, come se il Johnny Cash di fine carriera incontrasse il Nick Cave di “Boatman’s Call” e riempisse il tutto di orchestrazioni e feedback violenti. 

Sin dall’esordio datato 1999, i nostri hanno fatto vedere che sapevano innanzitutto scrivere canzoni e hanno affinato questa arte sempre di più, andando a conquistare tantissimi cuori, anche quelli di chi non ha normalmente dimestichezza con un certo tipo di musica. 

Ma d’altronde sappiamo bene (perché è successo anche ai Daughter) che quando i brani che scrivi funzionano così tanto da divenire colonna sonora delle più famose serie TV, la strada per il successo è ormai spianata. 

Io stesso, che dal vivo non ero ancora riuscito a vederli, mi stupisco di certe scene: quando salgono sul palco e centinaia di voci intonano all’unisono le parole di “Don’t Swallow The Cup”, ho intuito che forse hanno cessato da tempo di essere un gruppo di nicchia. 

 

Volendo rispettare un minimo di ordine cronologico, poco prima si era esibito Father John Misty. Dopo la fine dell’avventura coi Fleet Foxes, Joshua Michael Tillman ha ripreso la carriera solista, ha inventato uno pseudonimo da romanzo di Flannery O’ Connor e ha scritto due dischi uno più bello dell’altro, dove il folk sofisticato della sua band precedente è divenuto più orchestrale e si è sporcato notevolmente col sound degli anni ’70. 

“I Love You, Honeybear” è stato considerato da molti addetti ai lavori come uno degli album più belli del 2015 e avevo molta curiosità di vederlo finalmente dal vivo. 

Che sia un personaggio è fuori di dubbio: del resto, uno che ha dichiarato di essersi calato un acido e di essere poi andato a sentire Taylor Swift, sicuramente non può essere considerato un tipo noioso.

Barba e capelli lunghi, giacca e camicia nera aperta sul davanti, sembra una sorta di reincarnazione del Jim Morrison ultimo periodo. O di Chris Robinson dei Black Crowes, se proprio volete. Di sicuro la sua musica deve di più a quest’ultimo, piuttosto che al primo. 

Sono ballate ipnotiche e a tratti abrasive, dove la suggestione psichedelica opera molto, specie per merito di una band che lo accompagna egregiamente e dà ai pezzi la giusta profondità, facendoli esplodere al punto giusto ma anche trattenendoli con le briglie quando è necessario. 

Per il resto, è lui il vero mattatore dello show ed è sorprendente notare come passi dallo scatenarsi in una danza furiosa al cantare melanconiche ballate come “Bored in The Usa” (per quanto mi riguarda il punto più alto dell’intero set) accompagnato dal pianoforte o suonando la chitarra acustica. 

Un concerto bellissimo, da parte di un artista che potrebbe essere tranquillamente visto come il perfetto erede delle grandi rockstar degli anni ’70. Vi direi di ascoltarlo su disco ma dopo averlo visto dal vivo direi che la sua dimensione vera è quella. Pieno recupero di un’epoca in cui le canzoni erano innanzitutto quelle che suonavi su un palcoscenico. 

 

I The National sanno scrivere, dicevamo. Su disco hanno ben pochi rivali e lavori come “Boxer” o “High Violet” sono autentici manifesti dello stato attuale della musica rock. 

C’è una perfezione di suoni, una sensibilità di ricerca nel mettere assieme gli arrangiamenti, una profondità nella voce di Berninger, che sembra difficile che tutto questo possa essere riprodotto fedelmente sul palco. 

Invece rimane tutto, tanto che il giudizio “concerto pazzesco” deve ancora una volta essere speso e non risulta un’esagerazione. 

Sono una band che suona, che è rodata e affiatata più che mai e questo si sente. Dal vivo tutto diventa più energico, la batteria lavora molto di più anche nei brani più tranquilli, e i finali dilatati e accelerati dove le chitarre esplodono all’unisono a volte affiancate dalla voce di Matt, distorta e al limite dello screaming, sono più di uno. 

Gli intrecci di chitarre di Bryce e Aaron Dessner sono l’elemento portante dello show ma sanno anche giocare con pochi elementi, lasciando alla tastiera (suonata da loro due a turno) il ruolo principale: quando è così, incantano allo stesso modo e difatti “Pink Rabbits” e la cover dei Grateful Dead “Peggy O” sono stati forse i due brani più belli della serata (per il discorso che facevamo prima, relativamente al debito con la tradizione, ascoltare come hanno riletto uno dei brani più belli di una delle più grandi band americane, dice di più di mille parole). 

 

Matt Berninger poi è uno spettacolo a parte: parla poco, canta spesso ripiegato sul microfono, come se stesse cercando le forze per lottare contro qualcosa che non ha nome. E beve tanto, nel frattempo (a fine concerto avrà vuotato una bottiglia di vino bianco anche se a onor del vero non è detto che fosse piena dall’inizio). La voce non ne risente e anzi, esce fuori profonda ed espressiva come su disco. 

 

La scaletta di questo tour è particolare: ci sono i pezzi nuovi da far ascoltare e quindi lo spazio per i classici è comprensibilmente ridotto. Ascoltiamo cinque inediti, stasera, di cui uno (intitolato presumibilmente “Keep”), è stato eseguito per la prima volta in assoluto. Difficile dare un giudizio esaustivo: al primo impatto sono sembrati in totale continuità col repertorio recente, forse un filo più oscuri e sembrava non volessero mettere molto il piede sull’acceleratore, a parte forse nella lunga coda strumentale di “The Lights”. 

 

Nonostante il tempo trascorso dalla sua uscita, “Trouble Will Find Me” è ancora un disco che amano molto suonare e che evidentemente pensano li fotografi al meglio, come dimostrano i numerosi brani presenti in scaletta. Anche il pubblico gradisce: le varie “Sea of Love”, “I Should Live in Salt”, “Graceless”, “I Need My Girl”, sono accolte da applausi entusiasti e vengono tutte cantate a squarciagola, soprattutto dal numeroso pubblico femminile presente. 

Dagli altri lavori viene estratto poco ma forse è giusto così: questo è un tour proiettato nel futuro, non affacciato sul passato. Ad ogni modo, classici come “Bloodbuzz Ohio” o “Slow Show” sono sempre da pelle d’oca, unitamente alla suadente “About Today” e a “Mr. November” che da sempre vengono suonati nel finale. 

Come da copione, chiude l’enorme singalong di “Vanderlay Cry Baby Cry”, con la band a suonare unplugged e Berninger a far cantare il pubblico. Un finale scontato, perché è sempre quello da anni, ma su di me che lo vedevo per la prima volta ha sicuramente avuto la sua efficacia. 

Aspettiamo il disco ma dopo una serata così è sempre più che mai certo che il futuro del rock passerà anche da qui.