Quando Paolo Conte entra in scena ha l’andamento assorto di un cabarettista, oppure di un jazzista che va a prendere posto nella penombra. Quando poi mette le mani sul pianoforte oppure canta al microfono il mondo prende il volo dell’arte, le parole diventano birilli di un giocoliere che cammina sospeso sul filo, le note sono memorie, le melodie appaiono e scompaiono come ricordi. Questo accade da qualche decennio e continua a palesarsi anche oggi, mentre la stima e l’affetto che circonda il musicista astigiano sono ormai quelli che si dedicano ad un maestro. Ed anche la tournée estiva 2016 di Paolo Conte, con date centellinate (l’Avvocato ha fatto pochi giorni fa tappa nella cornice elegantissima e storica di Piazzola sul Brenta) conferma che il musicista astigiano anche sulla soglia degli 80 anni (compleanno in arrivo nel 2017) rimane un nome da Olimpo della musica italiana. 



Un Olimpo ben meritato sia perché le canzoni di Paolo Conte hanno radici, gusto e contaminazioni personalissime e originali; sia perché l’autore di “Genova per noi” porta in scena (da decenni) delle inarrivabili orchestre (band suona riduttivo), combinazioni di strumentisti che risultano sempre essere degli ensemble di inarrivabile musicalità e tecnicismo. Ne consegue uno spettacolo che non ci si stanca di vedere e rivedere, un appuntamento musicale che ha nello stile, nella fascinazione e negli incastri di arrangiamenti sempre nuovi i propri elementi di forza. Per questo suo tour, che segue a due anni l’uscita del suo ultimo disco, “Snob”, Conte si permette di lasciare fuori dal set alcuni superclassici (da “Boogie” a “Bartali”) e si lancia nel suo repertorio accompagnato da dieci orchestrali eccezionali che da qualche anno sono la sua squadra fedelissima, dove emergono tre chitarre acustiche (Nunzio Barbieri, Daniele Dall’Omo, Luca Enipeo), un violinista dalla presenza debordante (Piergiorgio Rosso) ed una serie di funambolici multistrumentisti, tra i quali risalta Massimo Pitzianti, musicista che passa con indifferente eleganza dal bandoneon al sax baritono, dal piano a coda alla fisarmonica. Vero alter-ego, Pitzianti ogni tanto prende il posto di Conte al pianoforte a coda “lungo e nero”, avvenimento che si ripete quando l’Avvocato preferisce cantare da solo, davanti al microfono e alla platea emozionata, invece che accompagnarsi alla tastiera, gesticolando con un Brel piemontese.



Il concerto, avviato con “Ratafia” e con le sue citazioni di gauchos, prende subito il volo con classici come “Sotto le stelle del jazz”, “Come di”, “Madeleine” e soprattutto con “Aguaplano”, uno dei brani più azzeccati di Conte, misterioso nell’immaginario, che segue in sogno un biplano che scende verso Rio de Janeiro, tra “gente che fa baccano”, “gambe che si sfiorano e tentazioni che si parlano”. 

L’atmosfera che Conte imprime poco a poco sulla pelle del suo pubblico è sempre un caleidoscopio di immagini fin de siècle, dove il tango ha molto più potere del rock, e il jazz degli anni Trenta e Quaranta è sublimazione di tutte le passioni e tentazioni e di tutti gli ammiccamenti. Il Piemonte dell’Avvocato è l’anticamera del Sudamerica, luogo mitico e magico, dove divinità e palme, donne incantevoli e amori incantati si fondono con la Parigi del primo Novecento, mentre le crociere su battelli caraibici sono innaffiate di rhum e assenzio. 



Se questo è il panorama ipnotico della jungla sonora contiana, diviene inevitabile che – dilatata, lentissima, sudata e grondante di malie e di incantesimi – “Alle prese con una verde milonga” confermi di essere uno dei pezzi da novanta del repertorio dell’Avvocato, perfetta incarnazione di quei sogni e di quelle ipnotiche sensazioni. Sorniona e sensuale, questa composizione jazzata trasporta tutti sulle rive di un qualche villaggio coloniale, mentre il pianoforte scarno attende l’arrivo di “Athahualpa o di qualche altro Dio”, che a un certo punto “dica descansate niño, che continuo io…”

In questo sortilegio di amiccamenti e brividi, i cinquemila spettatori di Piazzola sono ormai conquistati (tra loro tanti stranieri , turisti nordici nel Veneto estivo) e Conte, padrone consumato del palco e leader della sua big-band, fila via verso il finale di serata: prima  fa apparire la furbissima avventura di “Via con me” (che a conti fatti risulta la canzone più seguita dal suo pubblico, soprattutto per quel gioco verbale intrigante e complice: “wonderful, wonderful, good luck my babe….”), poi bordeggia con una superba interpretazione di “Max”, riarrangiata rispetto ai canoni tradizionali, sempre a mezza via tra l’Argentina e la Mitteleuropa.

Il finale è lungo, lunghissimo, estenuante, sfibrante: “Diavolo rosso”, la canzone che ammazza i polsi e le dita dei chitarristi, ed è il compendio della musicalità di Paolo Conte nel suo gioco a nascondino con l’orchestra. Quasi quindici minuti di sfinimento per una canzone “che sa di ratafià”. E così, quando finisce, c’e solo spazio per gli applausi.