A vedere Bruce Springsteen, a questo giro, non ci volevo andare. La trovata promozionale del remake del “The River Tour” l’avevo digerita solo perché mi avrebbe dato un po’ più di probabilità di ascoltare canzoni che normalmente ad un suo concerto si sentono con la stessa frequenza di una vincita alla lotteria. Così ho comprato i biglietti per le tre date italiane anche se, dentro di me, sapevo benissimo che l’esecuzione integrale di “The River” non avrebbe mai retto in Europa. 



Questo non fa che evidenziare il vero aspetto del problema. Quando si ha a che fare con questo tipo di artisti, che hanno fatto la storia del rock, che hanno carriere ultra trentennali e che hanno già dato almeno il doppio di quello che potevano dare, la domanda è solo e soltanto una: perché andare avanti? E accanto a questa ce ne sta un’altra, parallela e nello stesso tempo speculare: perché andare ancora a sentirli dal vivo? 



Le risposte a queste domande possono essere diverse e, come sempre accade, ognuno prenderà quella che più gli aggrada, quella che più lo aiuta. 

Personalmente io credo che il punto stia nel ruolo che ciascun artista decide di interpretare, dopo che si è costruito una carriera compiuta, che potrebbe anche finire da un giorno all’altro senza nessun rimorso.

E credo che, in qualunque momento della vita, la scelta sia la medesima: guardare al futuro o ripiegarsi sul passato. Sempre, a vent’anni come a ottanta. Perché certe tentazioni sono sempre in agguato e il problema è chi si decide di essere. 



E il rischio, per le vecchie glorie del rock, è sempre quello di trasformarsi nel Juke box di loro stessi, di mettere in scena un mito, di assecondare l’immagine che la maggior parte del pubblico ha avuto e ha ancora di loro. 

Ho sempre ammirato chi non fa così: Bob Dylan, per primo, che da sempre canta le sue canzoni in maniera lontanissima dall’originale, che non fa quasi mai i classici, che adesso gira da anni con le cover di Frank Sinatra, alla faccia di Mr. Tambourine Man, Like a Rolling Stone o del “menestrello di Duluth”. 

Oppure Neil Young, che pubblica un disco diverso ogni due per tre, fregandosene di modi, stili e qualità, e che dal vivo assembla le scalette sulla base di un filo tematico e non sulla base di quello che conosce il pubblico. 

Insomma, mi piacciono gli artisti che fanno quello che vogliono, che usano il loro nome, la loro popolarità, la loro leggenda, il loro mito, per imporre alla gente quello che loro in quel momento hanno voglia di fare. 

Purtroppo questa categoria sta diventando sempre più rara. L’ho scritto più volte ed eviterò di dilungarmi: oggi, coi dischi che non vendono più e i concerti che diventano l’unico introito sicuro nella carriera di un musicista, non si possono rischiare passi falsi. Meglio andare sul sicuro e dare alla gente quel che la gente vuole, prima che questa cambi idea e decida di andare a sentire qualcun altro. 

In tutto questo, dispiace dirlo, Bruce Springsteen si colloca in pieno nella categoria “Juke Box”. Da quando ha iniziato a girare ininterrottamente gli stadi, ovvero dal 2008 (fatta eccezione per la breve parentesi nelle arene per la leg americana del “The River Tour”), i suoi concerti sono diventati dei giganteschi carrozzoni dove tra cartelli con richieste, bimbi che cantano sul palco, fan tirati su per ballare “Dancing in The Dark” e altre trovate simili, la serietà e l’urgenza del messaggio originale sembravano andate perdute o, se non altro, pesantemente annacquate. 

Per intenderci, c’è una bella differenza tra lo Springsteen di “The Rising” e questo qui. E non parlo della bellezza dei concerti: Torino 2009, per dirne uno a caso, fu bellissimo, ma a Bologna 2002 si respirava un’altra aria. C’era la tensione del contesto, l’ansia di dover cantare certe cose, la setlist era costruita attorno ai brani dell’ultimo disco, con l’idea di far fare alla gente un percorso preciso. Persino “Waitin’ On a Sunny Day”, quel brano ormai diventato un tormentone odioso, arrivava come una liberazione, dopo la sospensione drammatica di “Empty Sky” e “You’re Missing”. Ve lo ricordate? Quel trittico costituiva il centro ideale di ogni concerto. 

Non c’erano richieste, suonava lui quello che aveva in mente, non c’erano così tante gemme nascoste tirate fuori da chissà dove, i concerti duravano meno e non c’erano baracconate. C’era la parte seria e c’era la parte rock in cui tutti saltavano e facevano casino. 

Esattamente com’era sempre stato. Io a Zurigo ’81 non c’ero, ma ho visto tonnellate di video, ho ascoltato migliaia di Bootleg e una piccola idea me la sono fatta. 

 

Negli ultimi anni, purtroppo, le cose sono cambiate. I dischi nuovi hanno continuato ad uscire, fa niente se di bassa qualità (anche se “Magic” per me rimane ottimo) ma lo spazio dato loro dal vivo si è ridotto sempre di più, e parevano anzi dei meri pretesti per poter andare in tour. 

Tour che, bisogna dirlo, non è mai cambiato dall’estate del 2008. Una sorta di “Neverending Tour” versione New Jersey, quasi, con l’impianto dello spettacolo che non mutava mai e che pareva avere come unico scopo quello di far divertire il suo autore portando in giro quello che è il suo prodotto: la E Street Band e i suoi concerti chilometrici e devastanti. Lo si è capito soprattutto da quando il nome della band viene scandito ogni sera dal pubblico e proiettato sugli schermi durante la presentazione dei musicisti. È come se tutto quello che per decenni è stata la cifra autentica dei concerti di Springsteen, divenisse ora un oggetto da esplicitare, da pubblicizzare, da mettere in vendita. 

Se ne sono accorti anche i fan, che infatti lentamente un po’ si sono adeguati. Al di là del numero enorme di gente in più che ci va (inutile girarci intorno: solamente 12-13 anni fa Bruce Springsteen era un musicista famosissimo ma non un’icona di massa come ora), molti dei quali unicamente per curiosità e sentito dire, certi riti come quello del pit antistante al palco (peraltro istituito solo nel 2003) sono ormai totalmente sfuggiti di mano. Quest’anno la regola pareva essere diventata quella di presentarsi il prima possibile ai cancelli, con il record totale raggiunto a Roma, dove la fila è iniziata almeno quattro giorni prima. 

I concerti sono diventati lunghissimi, intensissimi (a parte il fisiologico calo fisico dovuto agli anni che passano), le setlist si sono fatte anche più interessanti, ma il tutto è apparso sempre più sfilacciato. 

 

Ragion per cui, all’annuncio del “The River Tour” me ne sarei stato volentieri a casa. Anche perché l’operazione revival è una delle cose che più aborro e la scelta dei dischi suonati per intero (divenuta abituale nel biennio 2012-2013), pur facendomi piacere dal punto di vista puramente musicale (certe canzoni, se te le suona è solo un bene!), non l’ho mai digerita dal punto di vista artistico.

“The River” tutto di fila l’avrei sentito più che volentieri. Non è accaduto e diciamo che se un senso di amarezza mi porto dietro da questi concerti, è stato proprio per questo. 

Ma alla fine l’ha fatto quasi tutto, compresi alcuni brani meravigliosi che da anni sognavo di sentire. 

Nonostante tutto, però, questi concerti hanno ribadito il concetto in maniera piuttosto chiara: il “The River Tour” non è poi così diverso dagli ultimi; è coagulato attorno ad un disco solo, ma l’intento celebrativo è evidente. 

 

Eppure, e lo dico con una grande contentezza e un certo senso di liberazione, i tre concerti italiani a cui ho assistito, sono stati meravigliosi. 

Meravigliosi innanzitutto perché è mancato quell’elemento che mi aveva così tanto dato fastidio a San Siro 2013, vale a dire un concerto quasi tutto di brani “leggeri”, concepiti per far ballare, per esaltare un pubblico che aveva voglia solo di scatenarsi fisicamente e di celebrare il “grande del rock americano”. 

Il pubblico di San Siro, bisogna urlarlo ai quattro venti e scriverlo sui muri, è quanto di più becero e ignorante mi sia mai capitato di vedere. Anche nel 2016. Non conosce le canzoni ma, soprattutto, non vuole conoscerle: parla ad alta voce, guarda il cellulare, va a prendersi la birra, perché tutto quello che non è “Born in the Usa” o “Hungry Heart” a lui non interessa. 

Ecco, nel 2013 Bruce aveva suonato soprattutto per questa gente qui. 

Nel 2016 temevo avrebbe fatto lo stesso e invece no. Le setlist dei due concerti di San Siro sono state impressionanti. Se qualcuno mi avesse detto, nel 2002 quando lo vidi per la prima volta, che 14 anni dopo avrei ascoltato “Jackson Cage”, “Independence Day”, “Roulette”, “Point Blank”, “Drive All Night”, “Backstreets”, “Jungleland”, “Streets of Fire”, “Racing in the Street” nell’arco di due serate, gli avrei detto di rinchiudersi al manicomio. Invece oggi questa cosa è accaduta e ci sarebbero pure altri brani da nominare. 

Ma la scaletta può anche essere soggettiva: a te piace questa, a me quest’altra. Come si fa a giudicare un concerto dalla scaletta? 

Il punto è che questi tre concerti hanno avuto una caratteristica in comune: l’equilibrio. Quell’equilibrio che c’era nel ’78, che c’era nell’80 e c’era pure nel 2002, prima di perdersi per sempre. 

Equilibrio vuol dire che Springsteen si è ricordato finalmente che l’immagine del macho in jeans e maglietta non è l’unica che lo contraddistingue e soprattutto che non è quella che lo definisce meglio. 

Bruce si è ricordato di essere soprattutto un grandissimo autore e interprete di canzoni. Ha imbracciato la chitarra e ha cantato la rabbia di chi si sente in trappola e vuole fuggire da una condizione esistenziale che lo sta uccidendo (“Jackson Cage”), di chi prova a mettere al sicuro la propria famiglia dopo un disastro nucleare (“Roulette”), e lo ha fatto con una intensità e una consapevolezza che nulla avevano a che fare con la recita di un copione. 

Poi ha cantato molte più ballate. Si è ricordato che ha una voce e un modo di cantare che può zittire uno stadio. Me la ricordo ancora, quella versione di “My Beautiful Reward” con l’organetto elettrico, nel 2005 a Bologna: raramente mi è capitato di assistere a una cosa simile. 

Lo ha rifatto con “Point Blank”, la prima sera. Con “Racing in the Street”, la seconda. Due storie simili, in un certo senso, due amori che finiscono, il primo ammorbato nella sofferenza e nella perdizione, il secondo nel rimpianto di quello che avrebbe potuto essere e che non è stato. 

Musicalmente, sono state entrambe indescrivibili, probabilmente i punti più alti che abbia mai toccato da quando lo vedo dal vivo. 

La differenza con le varie “Working on the Highway”, “Darlington County”, “Hungry Heart” e varie è stato evidente. Possono piacere, chiaro, e c’è bisogno anche di loro, in un concerto che è anche pura energia. Ma quello è puro e semplice Stadium rock (anche se così è stato percepito, perché poi i testi di quelle canzoni sono tutto tranne che allegri e spensierati!), l’altro ha dentro qualche cosa di più. 

 

Perché potrò anche esagerare, ma il vero Bruce Springsteen per me è quello che canta “Drive All Night”. Sarà anche diventato famoso per i suoi concerti infuocati, ma se non avesse scritto canzoni di quel calibro il suo valore artistico ne sarebbe uscito dimezzato. 

Al punto che posso pure azzardarmi a scriverlo: chi durante certi momenti ha sentito il bisogno di parlare col vicino o quello di andare a prendersi una birra e poi magari è uscito esaltato dallo stadio dicendo che è stato un gran concerto… beh, quello non ha veramente capito niente di quello che è accaduto. 

 

A Roma tutto questo si è ripetuto ma col valore aggiunto di una location con una resa acustica finalmente all’altezza. E un pubblico che, almeno dov’ero io, è stato educato e rispettoso per tutto il tempo. Su “Point Blank” il silenzio era totale e la tensione nell’aria palpabile. 

Ma a Roma forse è andata anche meglio. Non solo perché ha aperto con “New York City Serenade” (con tanto di orchestra), che è la summa del suo primo universo poetico, quei personaggi sgangherati e allo stesso tempo affascinanti, che si muovevano in un New Jersey trasfigurato dagli occhi di un ragazzino venuto su a pane e Bob Dylan. Quando senti dal vivo una canzone così (che dal vivo non fa praticamente mai, per inciso), davvero ti viene da dire che, qualunque cosa accadesse da quel momento in avanti, il concerto sarebbe stato già indimenticabile. 

 

Poi perché ha dato l’impressione di essere fisicamente più in forma rispetto a Milano (saranno dettagli, ma stavolta le quattro ore sono state davvero sfiorate) e di avere in corpo un’energia rara anche per lui.

Il modo con cui ha divorato il rock and roll tradizionale di “Boom Boom”, “Summertime Blues” e del celebre “Detroit Medley”, lo ha reso chiaro a tutti. 

Ma anche la passione e l’entusiasmo con cui si è lanciato in “The River”: da “The Ties That Bind” ad “Out in the Street” non c’è stato un attimo di respiro e ci siamo davvero illusi che potesse andare avanti a suonarlo tutto. 

E ancora, la certezza che questa volta vi fosse qualcosa in più da comunicare: la “The Ghost of Tom Joad” acustica dedicata ai lavoratori italiani è stata meravigliosa e sofferta come non mai. Qualcuno gli deve aver chiesto di suonarla (così pare di aver capito) e lui prontamente ha risposto. Niente discorsi, niente retorica. Solo questo pezzo, che prova ad attualizzare il celebre romanzo di Steinbeck chiedendosi con disperato struggimento se la giustizia, quella vera, può esserci anche su questa terra. 

Poi “Land of Hope and Dreams”, suonata per le vittime dell’attentato a Nizza. È una canzone che riprende il linguaggio degli Spiritual e che parla di un treno, di un lungo treno in cui c’è posto per tutti, un treno diretto in un luogo dove finalmente tutti i dubbi, tutte le contraddizioni, tutte le sofferenze, tutte le assurdità della vita, potranno essere guardate in faccia e comprese. E c’è una bella differenza tra il suonare una canzone del genere quasi in chiusura, con tutta la tensione e l’energia accumulata, e per un motivo così, rispetto a quando la propone in apertura (vedi prima serata a San Siro) dove il suo messaggio rischia di non essere compreso. 

 

Da queste tre serate mi porto dunque dietro un pensiero ambivalente: Bruce Springsteen ha preso il format del carrozzone e della festa rock auto compiaciuta e auto celebrativa e l’ha riempita di contenuti musicali e lirici di grande effetto. Questi concerti, così come li ho percepiti io, sono stati il massimo a cui lo Springsteen versione 2016 può essere oggettivamente in grado di arrivare. 

Dall’altra parte però, è evidente che questa formula non potrà durare in eterno. Non solo per mere questioni anagrafiche: la band, grazie anche ai rimpiazzi, è ancora molto in forma e guardare Max Weinberg pestare per quattro ore sulle pelli senza mai fare una pausa è un’esperienza molto vicina al paranormale. Però gli anni passano ed è inutile illudersi: a questi livelli e a questa intensità li vedremo ancora per poco. 

Allora cosa occorre fare? A 67 anni, io credo che Bruce Springsteen dovrebbe decidere come vuole essere ricordato in quella che sta diventando probabilmente l’ultima parte della sua carriera: in poche parole, dovrà scegliere se ripiegarsi sul passato o guardare al futuro. 

Per non rischiare di diventare un nuovo “Elvis a Las Vegas” (peraltro lui stesso fu scioccato quando lo vide in quelle condizioni) occorrerà forse un nuovo progetto, che lo porti via dagli stadi e gli dia la possibilità di esplorare nuove facciate della propria musica. A 67 anni, è lecito pensare che lo possa fare alla grande. Nel 2006, quando girò con la Seeger Session Band, molti lo criticarono ma la verità è che quei concerti avevano una freschezza che in seguito non hanno mai più avuto. 

Staremo a vedere. Fino ad allora, per quanto mi riguarda, con lui ho chiuso. Non in maniera polemica. È che dopo tre concerti così non so davvero cosa potrebbe ancora darmi di più.