“I can’t say that I’m sorry for the things that we done at least for a little while, sir me and her we had us some fun”, non posse dire che mi dispiace di quello che abbiamo fatto, almeno per un po’, signore, io e lei ci siamo divertiti. 

Una grande canzone è quella che è in grado di superare la collocazione temporale del momento in cui viene scritta e pubblicata. Restare attuale cioè anche se l’argomento è circoscritto a un particolare episodio. Quasi mai l’autore è consapevole che una determinata canzone potrà avere questo risultato, essa nasce come particolare esigenza di un preciso sentimento vissuto dal suo autore che, quando è onesto verso il suo lavoro, diventa solo lo strumento espressivo di qualcosa che si impone per essere comunicato. Nel suo caso Springsteen lo ha descritto perfettamente: “Le mie canzoni conoscono me più di quanto io conosca me stesso”. 



Di fronte alla strage continua e apparentemente senza senso che accompagna questo luglio rosso (di sangue) Nebraska di Bruce Springsteen chiede di emergere dagli anfratti del tempo e con autorità si impone come chiave interpretativa di quel qualcosa che è il “male”. Come sempre nel caso di un grande disco, esso verrà a bussare nel momento che esso lo ritiene più opportuno. Un ascolto antico, quasi rimosso, nello scaffale delle cose scontate improvvisamente cadrà da quello scaffale per farsi raccogliere d irti, anche più di trent’anni dopo: ascoltami, io sono qui per essere ascoltato.



E’ impossibile, leggendo e ascoltando quei versi messi a inizio di questo articolo, non vedere davanti a noi le facce dei ragazzini che stanno insanguinando l’Europa: “Io e lei ce ne andammo a fare un giro, signore, e dieci persone innocenti sono morte (…) ho ucciso ogni cosa che ho incontrato”. A questo livello, l’altro, l’alterità e la sua morte sono un fastidio da togliersi di dosso come una zanzara nella calura estiva. Ma procura anche “divertimento” di fronte all’assenza di significato che la vita è diventata. Non si è più nemmeno in grado di distinguere quello che è bene o male: abbiamo ucciso, ma almeno per un po’ ci siamo divertiti. Potrebbe dirlo qualunque tagliagole dell’esercito del califfato islamico, là in Siria e in Iraq.



Ai ragazzi di origine algerina o tunisina o afgana, per qualche curioso effetto che oltrepassa la nostra volontà, si sovrappone improvvisamente il volto di Charles Raymond “Charlie” Starkweather, autore, tra il 21 e il 29 gennaio 1958 di dieci omicidi (il 30 novembre 1957 aveva già ucciso un’altra persona) in un caso di furia omicida durato circa due mesi, mentre si spostava in fuga dal natio Nebraska al Wyoming accompagnato dalla fidanzata 14enne Caril Ann Fugate. Tutti gli omicidi avvennero per i più futili motivi: quando ad esempio, per via della macchina bloccata nel fango, due ragazzi offrono loro un passaggio, dopo essere arrivati alla meta, li uccide con un colpo alla testa, Quando porta via di casa la fidanzatina, non uccide solo la madre e il patrigno che cercano di allontanarlo, ma anche la figlia di questi di 2 anni, strangolandola e pugnalandola. Uccide spezzandogli il collo anche il cane. 

Charlie Starkweather non è apparentemente un ragazzo con particolari problemi: è cresciuto in una sana famiglia della classe lavoratrice americana, gente con le palle che ha tirato su oltre a lui altri sei figli. E’ anche un bel ragazzo, che prenderà il soprannome di James Dean dei serial killer. 

Ma ha qualche problema fisico, un ginocchio varo che gli rende le gambe deformi e problemi di linguaggio: sarà vittima dell’ironia e del bullismo dei suoi compagni di classe. I professori lo giudicano tardo nell’apprendimento, è costretto a cambiare varie scuole, poi si scoprirà che soffre di una forte miopia che condiziona i suoi studi. Crescendo, accumula sempre più rabbia verso chi lo sfotte, verso i superiori, verso le autorità: in una parola, verso il mondo. Racconterà un suo compagno di classe: “Poteva essere la persona più gentile che aveste mai incontrato. Avrebbe fatto qualunque cosa per voi, se gli andavate a genio. Era anche molto divertente la sua compagnia. Tutto sembrava essere una grande barzelletta per lui. Ma aveva quest’altro lato. Poteva essere cattivo, crudele”. Il passo a diventare uno dei più feroci killer della storia americana è breve, esattamente come il ragazzo 18enne di Monaco di Baviera, il 19enne che ha sgozzato un sacerdote e tutti gli altri di cui si legge in queste settimane. Dietro a questi gesti, c’è sempre una vita cresciuta storta e problemi mentali mai affrontati o risolti. Arrestato, viene condannato a morte: “Volevano sapere perché ho fatto quello che ho fatto, be’ signore, credo che a questo mondo ci sia solo cattiveria“.

Il disco Nebraska, dieci canzoni che potrebbero essere altrettanti capitoli mancanti a una raccolta di racconti di Flannery O’Connor, sono la desolante descrizione di un uomo, Springsteen, in un momento di grave depressione mentale, in cui accarezza, come dirà lui stesso anni dopo, anche il suicidio. 

Perdenti, criminali, assassini, genitori assenti si alternano fra di loro con la stessa percezione di male che incatena i personaggi della scrittrice americana. Non c’è redenzione o salvezza per nessuno, non è neanche possibile trovare un ragionevole motivo per cui credere alla fine di una dura giornata. Semplicemente, ci si  trascina da un incubo all’altro. E’ un disco che terrorizza, registrato in una spoglia camera da letto, la voce persa nei riverberi e negli echi, le chitarre in secondo piano, la voce monotona e priva di emozioni di chi ha ingoiato dosi di prozac e anti depressivi. 
E’ un disco che ascoltato in condizioni particolari ha lo stesso effetto deprimente, ma anche stimolante nel senso che induce a prendere visione del proprio male, ogni ascoltatore, con lo stesso effetto straniante di un altro grande cantautore che anche lui cercava di sopravvivere alla depressione in un album altrettanto terrorizzante come è Songs of love and Hate, Leonard Cohen. Mai prima e mai dopo Springsteen sarà così onesto e così inquietante, tanto da aver eliminato non solo una versione elettrica incisa con la E Street Band che il batterista Max Weinberg nel 2010 disse essere stata registrata e di essere un “killing record”, un disco straordinario, lasciandola per sempre nei cassetti, ma anche di averlo quasi del tutto rimosso dai concerti. Chi scrive ricorda tra i momenti più alti dello straordinario concerto di San Siro una versione di Johnny 99 di furia devastante; più volte una versione full band di Atlantic City; una toccante Masion on the Hill full band durante il tour della reunion con la E Street Band nel 1999e soprattutto due versioni di bellezza incontenibile, piene dello stesso orrore che agita il disco originario, di Reason to Believe e Open all Night al concerto solista del 2005 a Milano: “Hey mr. deejay woncha hear my last prayer hey ho rock ‘n roll deliver me from nowhere“.
Capiamo e giustifichiamo perché Springsteen abbia quasi del tutto rimosso le canzoni di Nebraska: troppo il cumulo di dolore che le sottintende, troppo arduo continuare a cantarle. Troppa la loro malata attualità. Troppa realtà è impossibile da sopportare.

Quasi trent’anni prima in uno studio di Memphis Tennessee, un ragazzo poco più che ventenne sta cercando la sua strada. La notte del 19 agosto 1954 individua una canzone apparentemente innocua, un brano famoso che risale a vent’anni prima, che si suona e si ascolta in tutte le famiglie bene degli Stati Uniti. Si intitola Blue Moon, e per qualche misteriosa ragione il cantante – forse neanche rendendosi conto di quello che sta facendo – ne registra una versione che fa venire la pelle d’oca per il senso di alienazione, paura, orrore che la sottintende. Elvis cammina e si muove in quel brano come un serial killer, la voce sdoppiata per l’effetto eco degli studi della Sun, la chitarra di Scotty Moore che sembra l’effetto di qualcuno che picchia insistentemente da dietro il muro, il picchettare di uno psicopatico che sta discretamente cercando di irrompere nella stanza per compiere un massacro. Da canzone per buone famiglie Blue Moon quella sera diventa il primo brano horror della storia del rock, un oscuro presagio che stenderà la sua ombra fino alla camera da letto di un appartamento del New Jersey quasi trent’anni dopo, dove una giovane rock star sta pensando al suicidio mentre canta in modo monotono canzoni che parlano di serial killer e macchine usate. Se Nebraska è una richiesta di essere liberati dal nulla che si insinua tra le pieghe della mente, questa Blue Moon è il terrore che si propaga facendo a pezzi tutto quello su cui abbiamo costruito vite banalmente inutili. La luna, pallida e mortale, sale tra alberi morti e su un Mississippi gelido e senza vita. La stessa luna che sta salendo nel cielo del Nebraska.

 

 

 

 

Alla fine del disco di Springsteen, e pensando agli orrori di queste settimane di un luglio rosso sangue, di cui questo disco è colonna sonora malata e adeguata, la malattia mentale (e non le pseudo guerre di religione che non esistono, perché tutte le religioni chiedono la pace) che si estende come una nube oscura pronta a ingoiare chiunque sia emarginato, ultimo, debole, incapace per gli standard del mondo attuale, incapace di tenere il tempo con la bacchetta del potere, si resta con una domanda aperta. Pensate di sapere cosa passi nella mente della persona che vi dorme accanto? Nella mente di vostro figlio che dorme nella stanza vicina alla vostra? Illudetevi quanto volete: non lo saprete mai veramente.

 

E le agenzie continuano a battere implacabili: Germania, a Brema catturato dopo ore giovane fuggito da ospedale psichiatrico… Si era detto dell’Is, evacuato centro commerciale…. A Monaco arrestato 15enne. “Studiava attacco”… Battono, battono e il tempo del loro battito sembra quello della chitarra di Scotty Moore durante la registrazione di Blue Moon… Mentre l’armonica lancinante squarcia le visioni di Charlie Starkweather…