Patti Smith vive da sola a New York. Il marito è morto ormai da anni e i figli sono grandi, ognuno per la sua strada. Patti Smith vive in un appartamento di due piani nel disordine più totale, tra oggetti accumulati da una vita da cui non sa privarsi, alle calze spaiate e alla ciabatta singola che trova difficoltosamente sotto al letto. L’altra chissà dove sarà. Con lei un paio di gatti e un cagnolino. 



Tutte le mattine si infila un cappello di lana, un cappotto consunto, un paio di scarponi e attraversa il viale fino a Bedford Street per raggiungere il Cafè ‘Ino uno dei tanti locali del Greenwich Village. Qui beve tazze di caffè nero, mangia pane integrale tostato che immerge in un piattino pieno di olio. Ha un tavolo che è sempre il suo perché è sempre la prima ad arrivare alle nove di mattina. A volte però lo trova occupato, allora entra in bagno con un libro da leggere, aspetta dieci, quindici minuti finché il cliente se ne va e prende possesso del suo angolino: “Mi dà un senso di riservatezza dentro al quale mi ritiro in un’atmosfera tutta mia”. A volte il cliente non ne vuole sapere di andarsene: “Come suo, ha prenotato il tavolo?”. Lei con il suo berretto di lana e il cappotto sgualcito se ne sta in piedi come un bambino a cui hanno portato via il gioco preferito. “Be’ no, ma è il mio tavolo preferito” prova  a protestare. “Era seduta qui? Non c’è niente sul tavolo e lei ha il cappotto addosso”. Fosse stato un episodio dell’Ispettore Barnaby l’avrebbero trovata strangolata in un dirupo dietro a una canonica abbandonata, pensa Patti. 



E’ infatti una grande amante dei telefilm polizieschi, il suo tempo libero lo passa a guardarseli tutti, dice che i detective sono come gli scrittori in cerca di indizi da raccontare. “Non te la stai prendendo un po’ troppo per un tavolo d’angolo?”. A parlare era il mio Grillo Parlante interiore. “Oh va bene” ho detto. “Possano le piccole cose del mondo riempirla di gioia”. “Bene bene” ha commentato il grillo. “E possa restare prigioniera di una quantità di roba da riempirci un magazzino, senza cibo, acqua né cellulare”. “Me ne vado ha concluso la mia coscienza”. “Anche io” ho concluso e sono uscita”.



Patti Smith vive nel suo appartamento da sola, come un antico monaco medievale. Lei parla con gli oggetti, chiede loro scusa quando sono fuori posto, o quando ha una scarpa slacciata e si piega ad allacciare chiede scusa alla stringa per averla lasciata slacciata. Ogni tanto dice una piccola preghiera agli oggetti, alle cose che hanno avuto una vita in mano di qualcuno, di lei, del marito, una foto di Albert Camus incorniciata dal figlio e appesa vicino al frigorifero, la scrivania e la seggiola di suo padre a cui da piccoli era vietato avvicinarsi e a cui non si siede neanche oggi, per rispetto. E’ un monaco del terzo millennio nella città dei grattacieli e dell’alienazione urbana, cammina per New York in cerca della chiesa di un antico serbo ortodosso per stare in silenzio davanti a lui.

Ha un bello scrittoio per lavorare, ma “preferisco lavorare a letto come un convalescente in una poesia di Robert Louis Stevenson”.

Ogni tanto la invitano ad assurde conferenze sulla geografia e le scoperte matematiche, lei ci va così può fare qualche giorno di vacanza a Berlino o in Islanda o in Messico a casa di Frida Kahlo, alla quale si era recata quando aveva vent’anni ma dopo essere giunta da New York l’aveva trovata chiusa per restauri. Si era rifatta con la cosa che le piace di più, bere caffè facendo amicizia con un anziano oste. A volte prende un volo per Londra solo per passare una giornata chiusa nella camera di albergo a guardare telefilm polizieschi. Anche questo è rock’n’roll. “Nessuno sapeva dove ero, nessuno mi stava aspettando”. Parte per pellegrinaggi del corpo e dello spirito: “I pellegrini spagnoli viaggiavano di monastero in monastero lungo il Cammino di Santiago collezionando le medagliette da attaccare ai rosari come prova delle tappe. Io ho pile di Polaroid, ognuna a scandire il mio cammino e certe volte le sparpaglio come tarocchi o figurine di baseball di una immaginaria squadra celeste (…) Niente può essere veramente replicato. Non un amore, non un gioiello, non un singolo verso”.

Mentre nel suo silenzio cerca un senso alla morte del marito che è sempre un vuoto incolmabile cerca anche di scrivere (“L’energia della tempesta ha tirato fuori tutti i ricordi di quei giorni, un tetro viaggio autunnale. Riuscivo a sentire Fred più vicino che mai. La sua rabbia e il suo dolore di essere stato strappato alla vita”). Ma non ci riesce. Ha sognato un cowboy in una cittadina deserta che parlava tra sé: “Non è così facile scrivere del nulla”. “E’ molto più facile parlare del nulla” dice lei. Il cowboy la invita ad andarsene perché quello era il suo di sogno, non di lei. Lei rimane interdetta e da quel momento cerca motivazioni per scrivere. In fondo non è difficile. Basta ricordare. “M Train”. Il treno della memoria. Ed ecco che accade. Se pensavate che il libro di qualche anno fa, “Just Kids” fosse bello, aspettate di leggere questo. Patti Smith è sempre più brava.

Dal piccolo caffè del Greenwich Village come in una sorta di calvario con le sue stazioni, Patti Smith pensa tra sogno e realtà, traccia parole e disegni sul suo block notes. E’ una esiliata in cerca del senso delle cose. Dalla Casa Azul di Frida Kahlo in Messico all’incontro con un esploratore dell’Artico a Berlino dal bungalow diroccato sul mare che compra poco prima dell’uragano Sandy ai sepolcri di Genet, Sylvia Plath, Rimbaud e Mishima, alla Caienna nella Guyana francese quando Fred è ancora vivo e vi si reca solo per raccogliere con lui alcuni sassolini calpestati per decenni dai condannati, da regalare in un fazzoletto al poeta Jean Genet che qui era stato rinchiuso. I suoi sono piccoli gesti di misericordia, come a rimettere insieme il filo smarrito del senso del mondo. Tombe. Ci sono sempre tombe da andare a visitare che anche questo è un gesto di misericordia: “Vogliamo cose che non possiamo avere. Cerchiamo di recuperare un particolare momento, suono, sensazione. Voglio sentire la voce di mia madre. Voglio vedere i miei figli da bambini. Mani piccole, piedi veloci. Tutto cambia. Bambino cresciuto, padre morto, figlia più alta di me che piange per un brutto sogno. Per favore restate per sempre dico alle cose che conosco. Non andatevene. Non crescete”.

I fantasmi del padre e della madre (“Come sempre ho ringraziato i miei genitori per avermi dato la vita”) appaiono sbiaditi ma con quell’amore semplice ancora presente che l’ha educata a cercare sempre la bellezza nel dettaglio e nel grande respiro dell’universo. Il racconto di una donna che invecchia con nostalgia e paura? No: “Non rinunciare mai a quell’ardente tristezza che si chiama desiderio”, piuttosto.

 

“M Train” è una meditazione su cosa significhi essere uno scrittore. Cercare le ragioni, graffiare con le dita fino a far uscire il sangue per non perdere quel dono. Leggere questo libro è un invito privilegiato a immergersi nella mente di un artista e vedere come questa mente lavora. A volte è il regno dell’assurdo, al limite della pazzia, altre della malinconia, altre ancora dello stupore: “Un capolavoro è un capolavoro e basta”. Raramente questo privilegio è stato offerto con maggiore onestà e allo stesso tempo auto ironia come accade in questo libro: “Ogni porta è aperta a chi crede. E’ la lezione della donna samaritana al pozzo”.

“Ho lisciato l’orlo della veste di Parsifal

Guardando la pecora di Giotto passeggiare fuori da un affresco

Pregato davanti a icone sacre rivelate, sopravvivendo al tempo

Tenuto in mano trucioli scopati via dalla casupola di Geppetto

Aperto la cerniera di un sacco per cadaveri e contemplato la faccia di mio fratello

Visto i seguaci spargere petali su un poeta morente

Visto il fumo dell’incenso dare forma ai miei giorni

Visto il mio amore tornare a Dio

Visto le cose come sono”