Stoccolma, 1981, The River Tour. C’è un disco nuovo, uscito da qualche mese, le cui canzoni hanno bisogno di essere gettate sul palco perché si sentano vive. Un doppio vinile, che ha già scalato le classifiche mondiali ed è andato a fare compagnia sullo scaffale a capolavori come Blonde On Blonde di Dylan ed Exile On Main Street dei Rolling Stones. Il disco di uno Springsteen che si sta affacciando all’età adulta e vede sbriciolarsi a poco a poco i sogni e le illusioni della sua generazione. Quel disco urla dolore e paura, ha a che fare con un insostenibile senso di perdita e smarrimento. E quella sera, come già in altre occasioni, Bruce prova a spiegare ad una folla di giovani europei, la grande menzogna della sua nazione: “In America c’è una promessa che viene sempre fatta, dalle nostre parti la chiamano American Dream, il Sogno Americano: è il diritto a vivere la vita con decoro e dignità. Ma laggiù, e in altre parti del mondo, quel sogno è riservato a pochi. Abbiamo la sensazione che per raggiungere quel diritto sia necessario essere nati nel posto giusto o pensarla tutti allo stesso modo, capite?”.
Milano, stadio San Siro, 3 luglio 2016. Trentacinque anni dopo, vigilia della festa dell’indipendenza americana, ed è di nuovo River Tour, iniziato negli States e sbarcato un’altra volta anche in Europa. Il nuovo album da promuovere è The Ties That Bind, che poi è ancora quel vecchio disco, ma arricchito delle outtakes provenienti dalle sessions di registrazione ai Power Station, gli studi sulla 53ema ovest di New York dove Springsteen e la E Street band avevano inciso ben novanta pezzi. Quel senso di perdita, ormai, è stato raccontato in mille modi e le risposte soffiano nel vento da parecchi anni. E forse anche l’ultrasessantenne Bruce potrebbe avere poco da dire, con mille canzoni alle spalle e uno spettacolo di rock’n’roll che rischia di aver perso molto della sua originalità. Eppure, chi s’incammina verso lo stadio, questa sera, ha bisogno ancora di qualcuno che forse non avrà risposte, ma sarà in grado di formulare di nuovo le domande giuste, alla ricerca di quella reason to believe, che rimane inesorabilmente all’origine di ogni viaggio. Sono giovani e vecchi, padri e figli che vanno al concerto insieme – perché quella che cammina, anche per il Boss, non è più solo la my generation degli anni andati – e che hanno negli occhi l’incertezza del presente, minato dalla paura e dai nazionalismi senza cuore, dal dolore dei morti e dei feriti dell’ennesimo ignobile e crudele attentato. Sono adulti e ragazzi che hanno voglia di gettare il loro dramma in un pugno di nuove e vecchie canzoni. Quelle che, ancora una volta, narreranno di strade ed automobili, di amori perduti, di desideri e felicità disattese, di vite sospese in precari equilibri, ma anche di nuove ed insperate risalite. E poi, certamente, persone che vogliono anche vivere un festoso, irrefrenabile momento di rock’n’roll. Quel rock’n’roll che “deve parlare delle durezze della vita” – come aveva detto Springsteen – ma che “rappresenta sempre la felicità, un tipo di gioia che è l’elemento più bello dell’esistenza”.
C’è tutto questo e ancor di più in questa folla che riempie lo stadio in una sera d’inizio estate. Ancora una volta, come quella prima, indimenticabile notte del 1985 e come tutte quelle che sono giunte dopo, aspettando sempre l’alba di un nuovo giorno di sole.
E poco importa se questo non sarà proprio il River Tour – come si sospetta scorrendo la scaletta dei concerti precedenti – ma una kermesse costruita su grandi classici di repertorio. La questione in gioco è se il desiderio scritto dentro quelle canzoni sia ancora in grado di nascere intatto dalla voce di Bruce e dalle note degli strumenti di quella compagine di vecchi amici che porta il nome di E Street Band. Ma quella domanda, che attraversa migliaia di cuori, sembra trovare già una risposta negli occhi di Springsteen, pochi istanti dopo la sua comparsa sul palco. Guarda gli spalti davanti a sé, vede la coreografia composta dagli spettatori, con quella scritta: “dreams are alive tonite”, i sogni sono vivi, sono ancora tutti interi. E percorre le lettere con un dito, ad una ad una, il volto, quasi timido, sorpreso, un sorriso che si allarga e che poi grida: “ciao Milano! Andiamo!”.
Parte così un concerto, che si rivelerà, strada facendo, difficile da dimenticare. Land Of Hope And Dreams è la prima canzone, quella che ti aspetteresti alla fine e che invece è già una dichiarazione d’intenti, e racconta di un luogo dove abbiamo deciso tutti di abitare. Poi è subito The River, con The Ties That Bind e Sherry Darling. Ritmi serrati, il sole ancora sopra l’orizzonte, Springsteen che comincia a percorrere su e giù il palco, a stringere mani ed incontrare le persone. “Can You Feel The Spirit?”, urla ripetutamente, ma non c’è bisogno di sentirselo chiedere. Si butta in Spirit In The Night: “siamo spiriti nella notte, per tutta la notte / Alzati e lascia che tutto ti invada”. My Love Will Not Let You Down, è una breve incursione nelle outtakes di Born In The USA, poi ci si getta di nuovo nelle canzoni tratte da The River. Saranno quattordici, quelle suonate stasera, su venti brani in tutto del disco, a dimostrazione che questo è davvero, ancora, il River Tour. Jackson Cage, sentita raramente, è splendida, seguita, subito dopo da Two Hearts. Springsteen e Van Zandt si avvicinano al microfono, duettano come hanno sempre fatto in quella canzone. La voce di Bruce, inattaccata dal tempo, insieme a quella sempre ruvida di Little Steven, per cantare del bisogno che hanno gli uomini di camminare insieme: “you’ll find once again / scoprirai ancora una volta / two hearts are better than one / che due cuori sono meglio di uno”.
Il sole tramonta all’orizzonte, le luci sul palco si abbassano. Independence Day è la canzone da cantare proprio oggi, vigilia del 4 luglio. E’ il primo dei tanti momenti intensi dello show, un brano che narra del distacco di un figlio dal padre, di rimorsi e attese, dell’american dream dissolto in fondo all’orizzonte di una strada. Si comincia a capire, forse, dove batte il cuore di Springsteen, in canzoni più intime e raccolte, che scavano dentro l’esistenza in modo sempre più profondo e sincero. Ma c’è bisogno anche di riprendere ritmo e vigore e Hungry Heart, che segue Independence Day, è il giusto scossone per almeno sessantamila cuori che sono giunti affamati dentro uno stadio. Passare attraverso Out In The Street e Crush On You è un attimo, ancora due canzoni di The River rese bene. Poi è il momento per raccogliere la prima richiesta dal pubblico, ed è un’incredibile Lucille, brano di Little Richard, da mettere di fianco a You Can Look (But You Better Not Touch), per ballare e cantare tutti insieme e dire che sì, è proprio così, il rock’n’roll non può morire, mai.
Death To My Hometown, tratta da Wrecking Ball, precede il secondo momento alto dello show, forse il vertice assoluto. Le luci si abbassano di nuovo, le prime note fanno accendere le luci dei cellulari, che finalmente servono solo da accendini e non da strumenti che distolgono da quel che accade. Springsteen chiude gli occhi e canta The River e forse le luci, tutto quel pubblico, li vede solo dentro di sé, tra le righe dei versi di una canzone che non può smettere di commuovere le anime sincere. Ci sono ancora sogni e speranze che s’infrangono, di fronte ad una realtà spietata – “is a dream a lie if it don’t come true / un sogno è una bugia se non si avvera” – e allora gli occhi rimangono chiusi, a cantare Point Black, intensa come forse non l’avevi mai sentita, che racconta con drammaticità di vite e destini andati storti.
Trapped, cover del brano di Jimmy Cliff, è il risveglio di quegli occhi. Il palco s’illumina di verde, come la speranza che riaffiora. The Promised Land è un urlo, il bisogno di ricominciare a correre lungo una strada che abbia in fondo l’orizzonte. E I’m A Rocker dice che questo è quel che Springsteen sta facendo lassù: salire su un palco ed essere capace di tutto, pur di raccontare ciò che accade: “I’m a rocker, baby, and I talk / I’m a rocker every day”.
Il gruppo di canzoni che segue – Lucky Town, su richiesta del pubblico, Working On The Highway, Darlington County, I’m On Fire – è il prosieguo di una festa, che serve ad introdurre un altro tra i momenti più belli del concerto. Drive All Night è una gemma, cantata ancora ad occhi chiusi, in cui la voce di Springsteen si mostra capace ancora di esplorare territori che sembravano, ormai, non più raggiungibili. Il Boss canta, grida, sussurra; è una di quelle voci soul uscite dai vecchi dischi della Atlantic di tanti anni fa: “ don’t cry now / non piangere adesso / dry your eyes little baby / asciuga le tue lacrime, baby / I’d drive all night / guiderò tutta la notte / through the wind, through the rain, through the snow / attraverso vento, pioggia e neve”. Poi, passando attraverso una Because The Night in cui Nils Lofgren esce d’incanto come un folletto che danza assatanato intorno alla sua chitarra, si arriva a The Rising, tratta dall’omonimo disco uscito all’indomani dei fatti dell’undici settembre, una delle canzoni di Springsteen che più assomigliano ad una sorta di preghiera: “ci sono spiriti sopra e dietro di me / facce diventate nere, occhi che bruciano e splendono / il loro sangue prezioso mi leghi / Signore, quando sarò davanti alla tua luce ardente”.
Ci si potrebbe fermare qua. E invece c’è Badlands, cantata dal pubblico in coro, e poi ancora una gemma,Junglelands, con la quale si entra, quasi inavvertitamente, nell’ultima parte dello show. La voce di Bruce si affianca alle note del pianoforte ed a quelle dello splendido sassofono di Jake Clemons, nipote del compianto Clarence, ed è ancora un tuffo ad occhi chiusi dentro la poesia, alle prese di quell’ universo di scenari e personaggi che Ermanno Labianca definì un giorno “mastodontica lezione di rock’n’roll da strada, esplosiva carovana di umori tra illegalità e vibranti passioni”. Quel che accade dopo è il bagno di folla al quale ogni concerto di Springsteen deve concedersi alla fine. Born In The Usa, Born To Run, la splendida Ramrod – ancora una canzone di The River – Dancing In The Dark, Tenth Avenue Freeze Out, Shout, sono tutti sinonimi per descrivere la simbiosi con un pubblico che canta, balla, sale sul palco, abbraccia un sempre compiacente Bruce, insomma, svolge in sequenza tutti gli eventi che devono portare alla catarsi finale. Ma la perla del concerto, quella preziosa per cui vendere tutti i propri averi, è l’ultima canzone.
Springsteen che, alla fine, torna sul palco da solo, imbraccia la chitarra acustica, e canta Thunder Road. A quasi settant’anni l’uomo conserva intatte la voce, l’energia e la passione della gioventù, ma l’anima abita in posti sempre più intimi e raccolti, che hanno bisogno di silenzio per essere ascoltati, e di luci soffuse, perché se ne possano apprezzare le sfumature dei colori. “Ho questa chitarra e ho imparato a darle voce – canta Springsteen – la mia auto è sul retro se sei pronta per il lungo viaggio / Salta dalla tua veranda al sedile anteriore”.
E quella chitarra, scappata un giorno da “una città di perdenti”, andando “via per vincere”, adesso è finalmente pronta a ritornare. Ora che ha trovato migliaia di cuori affamati che da quella città non erano andati via, ma che non avevano mai smesso di andare a caccia dei loro desideri. Il cerchio si è chiuso, l’american dream è stato posto definitivamente nel cassetto, e domani sarà di nuovo un nuovo giorno. Springsteen saluta, posa la chitarra e se ne va. Ma i suoi occhi, incrociati per l’ultima volta sui maxischermi, prima che si spengano le luci, sembrano dire che è bello vivere perché vivere è cominciare sempre. Aspettando, ancora una volta, un giorno di sole.