Le capitali della musica americana sono quelle già note, nessuno (più o meno) inventa nulla: Nashville e New York, Memphis ed Atlanta, San Francisco e Austin. Ma nella geografia del suono a stelle e strisce, Chicago, con tutto il suo background blues, ha sempre un sapore particolare, confermandosi crocevia metropolitano di tendenze elettriche e roots e terreno di consacrazione di nuove star. Tra giugno e luglio (come tutti gli States, d’altra parte) la città dell’Illinois offre concerti, tributi e festival per uno spettro parossistico di gusti, dove però le perle (non fosse altro per la lunga tradizione) sono il Chicago Blues Festival (il più importante del settore) e pure il Gospel Festival, manifestazioni gratuite che richiamano spettatori e appassionati da mezzo mondo.
Nel primo, forte di un’affluenza che sfiora le 500mila presenze nel weekend, Shemekia Copeland (tra pochi giorni in concerto a Como) ha confermato di essere il nome più importante della sua generazione, assicurando di essere in effetti la “nuova Koko Taylor”. Nel gospel, invece, è il voluminoso Hezekiah Walker a confermare di essere il nome di punta, voce soul inchiodata ad un tappeto a volte stucchevole di pop-music. Ma nel Gospel festival (30mila spettatori nella serata di sabato, momento punta del cartellone) l’emozione maggiore è stata quella del ritorno in scena di Shirley Caesar, 78enne, insieme ad Aretha Frankin e Mavis Staples, considerata la più famosa interprete vivente del gospel. Grinta da predicatrice e voce portentosa, la Caesar (introdotta da Michelle Williams, cantante e attrice, amica di Beyonce e già vocalist nelle Destiny’s Childs, è tra le cantanti rhythm’n’blues attuali a non aver dimenticato le radici gospel e spiritual) ha messo in scena uno spettacolo emozionante, cui il pubblico ha seguito con la classica partecipazione emozionale che è dei neri e delle loro chiese in ogni stato dell’Unione.
Sin qui alcune piccole perle di una stagione musicale che – al di la dei festival – vive di concerti. Ed allora ecco tre rock show, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, in cui abbiamo testare il polso di alcuni tra i più significativi artisti americani. Vediamo come è andata e quali emozioni (e forse indicazioni sul futuro) hanno lasciato.
Oltre quindici mila persone nella bella cornice del Bank Pavilion at Northerly Island per Chris Stapleton, che a conti fatti è la più splendente stella (una outsider star) del rock americano. Nato e cresciuto tra country e southern rock, band leader (degli Steeldrivers) e autore di canzoni per decine di artisti di Nashville, questo massiccio musicista del Kentucky si è visto lanciare nel firmamento del rock grazie al successo inatteso di un album, “Traveller”, che ha venduto a bizzeffe nel 2015, aggiudicandosi un paio di Grammy e una quindicina di altri bei premi della discografia nordamericana.
Il tutto – premi, denaro, copertine, interviste, passaggi televisivi – non ha intaccato la scorza del ragazzone del Kentucky: c’è folla al concerto, e il palco è immenso, eppure Stapleton ha lo stesso approccio di quando frequentava i pub del Tennessee. Band ridotta all’osso, con la moglie Morgana come backing vocals, e lo stesso Chris alla chitarra (lui che strumentista eccelso sicuramente non è). Immenso feeling per brani come “Traveller”, “Daddy doesn’t pray anymore” (inarrivabile racconto di un figlio che porta il genitore al camposanto), “Was it 26” (cover tratta dalla produzione di Charlie Daniels), la sua celebre “Outlaws State of Mind” ed anche la gettonatissima “You Are My Sunshine” dei Pine Ridge Boys, il brano che è la canzone ufficiale della Louisiana, e che nel Sud – al pari di “Sweet Home Alabama” – ha nel Sud la reputazione di inno nazionale.
E’ stato un grandissimo concerto, acustico-elettrico, puro e diretto, a forte dimostrazione che il successo continentale non ha modificato per nulla questo songwriter che ha voce da Bob Seeger e presenza da Waylon Jennings. E che si permette di esordire con un omaggio alla città che lo ospita, con una versione southern di “Sweet Home Chicago”, che nulla a che fare con le mille anime di questo classico del blues. Se il Sud attendeva, dopo Jason Isbell, un nuovo nome ed un nuovo volto (più elettrico) per dare voce alla sua anima sempre solitaria e mai sazia, con Stapleton probabilmente ha fatto centro.
Sturgill Simpson ha in comune con Stapleton l’età (38 anni) e lo stato di nascita (il Kentucky), ma per il resto moltissime sono le differenze. Dopo aver lavorato nella Marina Militare, Simpson è sulle scene musicali da circa dieci anni (solamente) ma è oggi uno dei nomi emergenti del sound americano. Si era capito già lo scorso anno all’uscita del suo secondo album, “Metamodern Sounds in Country Music” che con questo silenziosissimo artista ci si trovava di fronte ad un potenziale interprete di enorme qualità. La conferma è arrivata con il nuovo disco, “A Sailor’s Guide to Earth”, e dal tutto esaurito che sta registrando la sua tournée nordamericana.
A differenza di Stapleton, fisso e convinto nella sua identità sudista, Sturgill gioca sulla varietà radicata nella tradizione: echi di rockabilly, spruzzate di blues, fortissime componenti soul e pop, con Merle Haggard e Waylon Jennings come ideali, virate verso la psichedelia e influenze insolite. Schivo sul palco, quanto umorale nella voce, questo artista proveniente dal bluegrass ha mostrato al Riviera Theatre di Chicago (tutto esaurito da circa un mese) cosa significa fare country abbandonando la retorica del country, interpretando pezzi dal catalogo dei Nirvana (“In bloom”) e della musica soul (“You Don’t Miss your Water”, di William Bell). Inafferrabile e difficilmente inquadrabile, Sturgill si fa amare preferibilmente per le sue ombrose ballate (“The promise”) e per le accelerazioni vertiginose (“It Ain’t All Flowers”), oppure per le sue ballate insolite tra il country e il funky, rese inedite dalla presenza di una sezione fiati che offre una spinta personalissima a pezzi come “Brace for Impact (Live a Little)” e alla conclusiva “Call to Arm”, canzone fortemente politico-sociale che cresce e decresce come una marea sonora.
Se lo strano andamento della cosiddetta “americana” ha bisogno di un miscelatore, di un artista in grado di movimentare le acque e di spezzare i confini, Simpson è colui che può trovare la nuova formula, in una forma differente da quella già testata negli anni ’90 da Beck. Una formula chimica in cui gli ingredienti hanno sufficiente furbizia e gusto per oltrepassare le frontiere degli appassionati e dei tifosi di questo o di quel linguaggio sonoro.
Non più giovani, con qualche pezzo (chiamasi Mark Olson) perso per strada, i Jayhawks rimangono una delle più fulgide storie della musica americana. Oggi come ai tempi di “Hollywood Town Hall”, disco della affermazione di questa formazione di Minneapolis, Gary Louris continua a macinare canzoni e sound che si posizionano tra i Beatles e Neil Young, tra i Byrds e Tom Petty, noncuranti del tempo che passa e che richiede a loro colleghi forse più narcisisti maquillage e cure di ringiovanimento.
La band sentita alla Lincoln Hall di Chicago ha gli stessi suoni cristallini di un tempo, purezza acustica che alterna a bordate psichedeliche e distorte quasi avesse la voglia di confermare la diretta discendenza dai suoni di “Rust Never Sleep”.
Karen Grotberg alle tastiere conferma di essere da tempo un innesto prezioso e perfetto, capace di aggiungere senza alterare la miscela che Louris ha creato negli anni, soprattutto da quando si è trovato da solo a tenere alta la bandiera della band. A questo si aggiunge un nuovo chitarrista, Jeff Lyster, da anni spalla di Mark Everet negli Eels, poli-chitarrista che funziona sia da ritmico che da esperto di pedal steel, senza mai rubare al band leader scena e fantasia.
In concerto il nuovo disco dei Jayhawks – “Paging mr.Proust” – si prende meritatamente il suo spazio, partendo con l’ottima “Leaving The Monsters Behind”
Louris e soci lanciano nella sera di Chicago i sono i pezzi che hanno reso celebre la band, da “Waiting for the Sun” all’ottima “Pretty Roses in Your Head”, dalla trascinante “Lies in Black and White” alla conclusiva, “I’ll be your key”, che sembra un pezzo dalla penna di Paul MacCartney. Finale stellare di concerto, con “Blue”, che rimane un classico country-rock senza tempo: “All my life, i’ve waited for, Someone I could show the door…”. Una di quelle cose che potrebbero venire dalla penna di Gram Parsons o di Stephen Stills.
E come spesso accade, ci si domanda, se la grandezza di una band stia nella fedeltà alle proprie origini o nella qualità dei propri cambiamenti. Tra Stapleton e Sturgill Simpson, i Jayhawks scommettono sulla radice che può mutare ed anche divenire dissonante (come nel perfetto calembour di “Ace”, che segue la falsariga sperimentale delle scelte di “Star Wars” dei Wilco, dove il lavoro di Nels Cline lascia un’impronta precisa….). Nella scelta tra la fedeltà e la contaminazione, Gary Louris preferisce cambiare discorso e continuare a citare le grandi ispirazioni, senza per questo permettersi di ammuffire sulle “solite” ballate.
Per questo, a costo di percepirlo come “usato sicuro”, ci si può permettere di ascoltare un concerto della sua band emozionandosi dalla prima all’ultima canzone. Senza nostalgia per il tempo passato, perché per i Jayhawks non è passato invano.