Quello della cantautrice britannica Corinne Bailey Rae non è un ritorno all’incisione come tanti, non è la riemersione dalla dorata pausa di riflessione di un’artista che ha deciso di guardare dentro di sé e ricaricare le pile. Quella che trasuda dai solchi di “The Heart Speaks in Whispers” è piuttosto un’atmosfera segreta e allettante che reca in sé la forza persuasiva del monito sia per il lasso di tempo della sua lavorazione che per la sostanza vitale che lo ha segnato.
Prima di quello c’era stato un altro tempo che poteva assomigliare a una delle tante belle fiabe della giovane virtuosa catapultata di getto nell’alveo dorato e illusorio dello star system. Di lei si narrava come di una Billie Holiday reincarnata in una soul singer di Leeds. Con tutte le riserve su pro e contro di paragoni oltremodo ingombranti, c’era del vero. Forse per quel modo di portare la voce con impareggiabile flemma, o per quell’abilità sommessa e implacabile di trafiggere l’ascoltatore. Fatto sta che l’eponimo esordio di grande successo (2006) ne svelava un talento superiore e persino programmatico: implementare la quinta generazione del soul sotto il segno di un revivalismo talmente ricco ed eterogeneo da risultare familiare e inusitato allo stesso tempo.
Canzoni perfette, fluide e avvincenti (Put Your Records On, Trouble Sleeping, Breathless, Seasons Change) che sembravano rubate a un’enciclopedia di ricette segrete del R&B dei gloriosi radio days, arrangiamenti freschi e scoppiettanti a rendere il tutto amabile e inseparabile all’ascolto.
Certo c’era stata poi la tragica vicenda della morte del marito Jason Rae, ma ancora più traumatica ne era stata l’elaborazione con un lavoro – “The Sea” del 2010 – partorito quasi di getto, declinato tutto al presente tra senso di perdita e trasfigurazione, baciato da un’intesa musicale ingegnosa tra ossianico e celebrativo, tra low-fi e armonie sanguigne.
L’approdo alle nuove canzoni arriva da un lungo percorso di riflessione sicuramente consapevole ma forse ancor più fisiologico, quasi una necessità di ripartire dai silenzi, dalle frasi sussurrate e dalla contemplazione della natura inviolata per non interferire con il riformarsi inesorabile della vita intorno. “The Heart Speaks in Whispers” prende le mosse da questo e si salda al culmine concettuale del precedente “The Sea” la cui title track alludeva al ciclo continuo e inesauribile delle cose. Questa nuova opera vuole esserne una lunga celebrazione che coniuga carnale e spirituale. C’è l’apporto dell’alter ego di sempre (poi divenuto consorte) Steve Brown a produrre e firmare spesso a quattro mani, quello più sporadico di un’altra vecchia conoscenza come Steve Chrisanthou, quello nuovo e decisivo delle gemelle Paris e Amber Strother.
L’inizio fornisce la chiave di lettura saldandosi con il finale di un album da godere e interiorizzare nei sedici brani della versione deluxe. The Skies Will Break integra il mood del disco e al contempo il suo esatto opposto, un inedito “airy” pop fresco e danzante per piano ed effetti elettronici spezzato qua e là da break d’arpa e sospensioni acustiche. Il pezzo di chiusura Push On For The Dawn sfuma in una delicata coda che apre un breve e significativo confronto con i momenti gloriosi dell’art rock.
Intorno una varietà ed un’ispirazione che accusa cali minimi, innalzando la capacità di visione enciclopedica della Bailey Rae a livelli mai toccati in precedenza. Hey I Won’t Break Your Heart è una crescita a fuoco lento di sottili armonie soul coronate da sensuali svolte corali, Stop Where You Are rilancia la magica e spigliata radiofonicità del disco d’esordio, Tell Me si misura con le venature tribali di certo soul-pop americano.
A poco a poco si svela la profonda intenzione lirica e musicale del lavoro e i suoi primari referenti artistici con un indizio nei ringraziamenti di copertina dove – tra i numerosi – fa capolino quello a Esperanza Spalding per gli incoraggiamenti e per averla introdotta a Paris e Amber Strother. E’ con il loro apporto che la scrittura della nostra azzarda rischi e raffronti con le grandi espressioni storiche dell’area soul-pop-jazz. Dai preziosismi orchestrali di Been to the Moon alle moine black di Horse Print Dress per arrivare al brano ideato come vero centerpiece. Green Aphrodisiac, flusso di armonie vocali stratificate, docili ritmi sincopati, arpe schizzate e colori caldi di piano elettrico, proietta la Bailey Rae nella triade delle talentuose autrici soul dell’ultima decade collocandosi tra l’ubriacante Keys di “The Element of Freedom” e la funambolica Spalding degli ultimi due lavori.
Tutto qui? No, perché la nostra nel seguito del disco cavalca quello stato di grazia mettendo in fila svariate gemme come la pastiche di influenze neo-soul e dolci lasciti funk ’70 di Do You Ever Think of Me scritta insieme a Valerie Simpson, dove cita Mayfield e flirta con gli Chic. Oppure con gli onirici soul-psych Taken By Dreams eWalk On, fino a sorprendere con notturni acustici come la suadente Night, la più elusiva e psichedelica In The Dark e il gospel pianistico High.
Chiude la già citata Push On For The Dawn che fa convivere la profondità nera del canto della meticcia Bailey Rae con le inglesissime infatuazioni per le tinte pastello degli interludi acustici dei Genesis, confermando l’alto profilo del disco e la stoffa intrepida di quest’artista.