Lo scorso febbraio, recensendo la produzione al San Carlo di Napoli di Norma di Vincenzo Bellini, su libretto di Felice Romani, ricordai che questa opera non è solamente uno dei più impervi lavori del ‘belcanto’ ma anche opera difficile a cui dare un’ambientazione. Gianandrea Gavazzeni ha più volte sostenuto ‘l’ambivalenza neoclassica romantica’ del capolavoro belliniano così come era il lavoro teatrale.
Norma o l’infanticidio di Alexandre Soumet andato in scena con grande successo a Parigi nel 1831, poeta ed accademico di Francia allora molto apprezzato ma oggi noto solamente per avere ispirato Bellini, si poneva come ‘pontiere’ tra il neoclassicismo, allora in declino, e l’emergente romanticismo”.
A mia memoria, la sola produzione recente in cui si cercava di cogliere ‘l’ambivalenza neoclassica romantica’ è quella messa in scena dal Massimo Bellini di Catania nella primavera 2007 con la regia di Walter Pagliaro, le scene e i costumi di Alberto Verso, Giuliano Carrella sul podio e Dimitra Theodossiou, Carlos Ventre; Nidia Palacios; Riccardo Zanellato nei ruoli principali. Una produzione che il Massimo Bellini ha portato anche in Giappone.
Da allora, ho visto ed ascoltato allestimenti i più diversi ma tutti lontani dalla l’ambivalenza neoclassica romantica. Allo Sferisterio di Macerata, Massimo Gasperon spostò l’azione di Norma dalle foreste del “De Bello Gallico” al Tibet, occupato dai cinesi. In produzioni recenti, la vicenda è stata spostata alla guerra partigiana negli ultimi anni della seconda guerra mondiale: si pensi a quella di Jossi Wieler e Sergio Morabito giunta a Palermo nel 2014 dopo essere stata vista in vari teatri che ha ottenuto l’Oscar della critica musicale tedesca e ha ispirato la messa in scena di Moshe Leiser e Patrice Caurier, con Cecilia Bartoli. Allestimento che a sua volta ha avuto l’Oscar internazionale della lirica nel 2013 e che per tre anni ha fatto il “tutto esaurito” al Festival di Salisburgo. Due produzioni di tutto rilievo ma che non puntavano sull’ambivalenza tra neoclassicismo e romanticismo, o meglio sulla transizione da un stile ad un altro.
Nella edizione di Norma in scena a La Fenice sino al 18 settembre (una ripresa di uno spettacolo che ha avuto una notevole eco nel 2015) l’azione è ambientata in Africa occidentale francese ai tempi delle prime avventure coloniali. La produzione è affidata ad una famosa artista afroamericana Kara Walker. Nel visivo, Kara Walker ha una fama internazionale per le sue silhouettes e sculture, ispirate all’arte tradizionale africana, nonché per le sue installazioni monumentali. Inoltre una Norma basata sulle astrazioni del visivo africano, si coniuga bene con la 56sima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia.
Nonostante quanto scritto in molte testate non è la prima volta che Norma viene collocata in Africa. Ne ricordo un’edizione del 1976 che debuttò al Wolf Trap Festival in Virginia e venne ripresa dal Metropolitan in cui la protagonista era Shirley Verrett (un mezzo soprano, Adalgisa era un soprano). A parte la trasposizione nel continente nero, lo spettacolo era molto tradizionale (la regia, se ben rammento, era affidata a Tito Capobianco). Nella seconda metà degli Anni Settanta, il contrasto tra americani bianchi (i romani) e quelli di origine africana aveva un indubbio significato anche se l’impianto generale era piuttosto tradizionale.
Kara Walter è conosciuta per il suo impegno sociale contro la violenza specialmente nei confronti delle donne, contro le discriminazioni, contro il razzismo. Sono temi che trasudano nella sua arte visiva. Nel programma di sala, specifica che l’azione è posta nel Congo ‘francese’ quando il Governatore era l’esploratore italiano Pietro Savorgnan di Brazzà; secondo la recente storiografia africana, non sarebbe stato un mitico portatore di civiltà, ma un violentatore di donne congolesi (e forse per questo motivo morì prematuramente, o per malattie veneree o per omicidio, dopo avere posseduto mogli di re africani).
Ho conosciuto molto bene l’Africa occidentale nei circa vent’anni i cui ho lavorato per la Banca Mondiale e due agenzie specializzate delle Nazioni; la concezione di sensualità e rapporti sessuali tra l’Europa e l’Africa occidentale è tanto differente che non credo alla tesi dell’omicidio per questioni di letto. E’, tuttavia, innegabile che i ‘bianchi’ considerassero inferiori i nativi.
Le scene hanno un indubbio impatto. Lo hanno anche i costumi dove domina il bianco ed il rosso, con qualche punta di nero. Manca però una vera regia La Walker ha preso come assistente Charles Fabius, consueto collaboratore di Robert Wilson, uso quindi a movimenti simmetrici più che ad un dramma di lacrime e sangue. I solisti paiono lasciati ‘ciascuno a suo modo’ sul palcoscenico. Un po’ come negli Anni Cinquanta. Anche se alcuni solisti sono di grande esperienza e recitano molto bene, nell’insieme i sei solisti sembrano in cerca di una regia.
L’opera viene sovente affidata ad un maestro concertatore di secondo piano nella convinzione che la partitura è intesa principalmente a servire il canto. Ci si dimentica che l’orchestrazione è tanto ricca e complessa che Richard Wagner la considerava un modello per quelli che sarebbero stati i suoi muskidrama. E’ stato chiamato Daniele Callegari che legge la partitura come una ‘tragedia lirica’, densa di una vasta gamma di tinte e di colori e mette in rilievo il sinfonismo continuo tra recitativi, arie e terzetti (davvero innovativo quello con cui si chiude il primo atto, nella prassi dell’epoca un concertato, ma in Norma si sentono solamente lontani accenni del coro).
Ottimo il coro diretto da Claudio Marino Moretti.
Di alto livello la parte musicale, soprattutto l’interpretazione delle due protagoniste. Marella Devia, a 68 anni, affronta Norma solo dal 2013. Rispetto alla sua interpretazione al San Carlo di Napoli lo scorso febbraio, ha approfondito l’emissione sfoggiando un bellissimo timbro, una splendida linea vocale, un superbo legato e un esemplare padronanza del fiato negli acuti e nella coloratura. Le più piccole dimensioni de La Fenice (rispetto al San Carlo) consentono di apprezzare meglio questo straordinario soprano. Accanto a lei, la giovane Roxana Contantinescu è una mirabile Adalgisa piena di sfumature. Davvero commovente il loro duetto “Mira o Norma”. A fronte di queste due protagoniste, gli altri quasi scompaiono. Lo stesso Pollione/Savorgnan di Brazzà impersonato da Roberto Aronica passa dallo stentoreo al melodico con meno grazie e destrezza che ci si aspetterebbe. Simon Lim (Oroveso), Anna Bordigon (Clotilde) e Antonello Ceron (Flavio) diventano poco più che comparse.
In sintesi, una produzione discutibile ma con una grandissima esecuzione musicale.