Difficile dire cosa aspettarsi ancora dai Wilco. Forse “nulla” sarebbe la risposta più appropriata. La band di Chicago, nel corso dei 22 anni di carriera fin qui trascorsi, ha scritto dischi memorabili e ha portato il proprio sound in territori difficilmente immaginabili, giudicando in base all’Alt Country dell’esordio “A.M.”.
E quando un collettivo di musicisti pubblica dei capolavori, andare avanti diventa difficile. Può farlo male, può farlo bene, ma rimarrà sempre il fatto che tu, da quei dischi lì, non ne uscirai mai.
Jeff Tweedy, da questo punto di vista, sta giocando in maniera corretta. Dopo “A Ghost is Born” avrebbero anche potuto sciogliersi e li staremmo celebrando ugualmente come uno dei più grandi gruppi della storia del rock.
Sono andati avanti, hanno pubblicato altri quattro dischi e di fatto non ne hanno sbagliato uno. Ce n’era bisogno? Indubbiamente sì, vista la qualità della proposta. Probabilmente no, se si pensa che un nuovo album debba aggiungere qualcosa in più ad un discorso portato avanti negli anni.
Se si eccettuano alcune cose di “Sky Blue Sky” e “The Whole Love” (perché su pezzi come “Impossible Germany” o “Art of Almost” alcune band avrebbero potuto campare per anni), il resto è stato ordinaria amministrazione. Meravigliosa, certo. Ma pur sempre ordinaria. Ordinaria per uno come Tweedy, sia ben chiaro. Perché non tutti sono in grado di sfornare canzoni con la noncuranza con cui lo fa lui.
L’estate scorsa, per dire, ero in spiaggia che leggevo tranquillo, quando su Spotify compare a sorpresa “Star Wars”, che gli americani avevano pubblicato così, di punto in bianco, senza annunciarlo.
Poi, quando siamo tutti in trepidante attesa della data di novembre a Milano, convinti che farà ancora parte del tour di quel disco esattamente come Ferrara quest’estate, ecco che arriva la notizia che a settembre sarebbe uscito un nuovo lavoro. Annunciato, questa volta, ma sempre di effetto sorpresa si tratta.
Il titolo è di sicuro un gioco di parole col nome del gruppo ma al momento mi risulta indecifrabile. Diverso discorso per la copertina, realizzata dal famoso fumettista Joan Cornellà e densa di quello humor nero a cui i suoi estimatori sono abituati. Come già accaduto sul precedente “Star Wars”, quindi, i Wilco giocano con l’ironia e sono bravi a non prendersi troppo sul serio, caratteristica che i loro fan hanno sempre dimostrato di apprezzare.
È stato scritto spesso, di questo disco, che sarebbe una sorta di contraltare del precedente: laddove quello uscito lo scorso anno sarebbe più elettrico ed energico, quest’ultimo avrebbe invece un mood più delicato, quasi crepuscolare.
Mi sento di condividere a grandi linee questo giudizio. “Star Wars” era un disco classicamente alla Wilco, che conteneva tutti i loro marchi di fabbrica, essenzialmente lineare nella struttura, a parte qualche episodio più sofisticato e d’atmosfera (vedi “You Satellite”), pigiava molto il piede sull’acceleratore.
“Schmilco”, che se abbiamo capito bene è stato composto più o meno nello stesso periodo, vive in effetti di sonorità acustiche, a tratti dimesse, e se si eccettuano un paio di brani che avrebbero potuto essere pubblicati anche un anno prima (“Nope” e il singolo “Locator”), abbiamo di fronte un lavoro volutamente diverso, quasi antitetico.
Non è un disco triste, però. Ci sono senza dubbio brani cupi, con un andamento in un certo senso strascicato (è il caso di “Happiness”, piccolo gioiellino agrodolce con quella frase del ritornello, “La felicità dipende da chi è che incolpi”, così appropriata per leggere i tempi odierni) e in generale il clima è piuttosto raccolto, però qua e là affiora sempre quell’aria disincantata di Tweedy e c’è sempre l’impressione che, anche questa volta, scrivere e cantare le sue canzoni gli piaccia da matti e che sia sempre e comunque una cosa bella da fare, anche quando non sei su toni propriamente spensierati.
La band è ridotta al minimo: Tweedy e Neals Cline si sono presi sulle spalle il grosso degli arrangiamenti e la maggior parte delle canzoni sono costruite attorno alla chitarra acustica del singer, con l’altro che ricama sopra con l’elettrica. Occasionali inserti delle tastiere di Pat Sansone ce ne sono e ovviamente è un disco che vede la presenza di tutti i membri, anche se l’impressione è proprio che si sia voluto dare un carattere più scarno ai singoli brani. Una soluzione adottata sia negli episodi più classici come l’opener “Normal American Kids” (che pare la diretta prosecuzione, 22 anni dopo, del discorso iniziato con “A.M.”) sia in altri più sbilenchi e stralunati come “Common Sense”, che finisce con un assolo che sembra suonato in stato d’ebbrezza.
Non mancano quei magnifici episodi incalzanti e in crescendo a cui la band ci ha abituato: da questo punto di vista “Cry All Day” sfiora il capolavoro, e sembra la diretta controparte di “Random Name Generator”, presente su “Star Wars”.
E c’è anche un brano, “Someone to Lose”, dove il clima acustico viene interrotto da sporadiche esplosioni chitarristiche nel ritornello, a ricordarci che i Wilco sono un gruppo che anche quando suona in modo lineare, qualcosa deve pur infilarci dentro.
Non tutto funziona, purtroppo: “Quarters” è un pezzo dal sapore vagamente Indie Folk che risulta trascurabile, se non fosse per un’ottima coda strumentale, mentre la conclusiva “Just Say Goodbye” ha il sapore del riempitivo, nulla di più.
In definitiva è un bel disco, questo “Schmilco”. Probabilmente più bello di “Star Wars”, che ascolto ancora volentieri ma che ha nel complesso meno forza.
Certo, rimane il fatto che quando loro non ci saranno più e metteremo in fila tutto quanto, non credo che ce ne mostreremo così entusiasti. Ripeto, i Wilco verranno ricordati per altro ma comunque, già solo riuscire a pubblicare un album così a più di vent’anni dall’inizio è un bel traguardo, davvero.