Una domanda sorge spontanea all’annuncio di un simile evento: ma perché un altro film sui Beatles? La risposta però è sostanzialmente immediata: perché quello che è successo a loro nel breve arco della loro parabola artistico-professionale resta ancora unico. E va scoperto ed approfondito. Come le loro canzoni, pur ascoltate più e più volte, offrono sempre nuovi spunti sonori, così pure il fenomeno che hanno rappresentato vale la pena di essere studiato e conosciuto meglio.
Ma non sto scrivendo un libro – e parlando dei Beatles i temi sono così tanti che si rischia continuamente di divagare – e quindi nel breve contesto di un articolo mi devo limitare al film, visto in anteprima ed in programmazione nelle sale italiane dal 15 al 21 settembre.
The touring years, gli anni in cui i Beatles sono impegnati in esibizioni in tutto il mondo e inventano il concerto rock (una delle decine, forse centinaia di cose che hanno fatto per primi): questo è il focus del film. Sì, perché ad un certo punto, per tutta una serie di motivi, fra cui l’incolumità fisica, i Beatles smisero di andare in tournée, e questo accadde proprio 50 anni fa, il 29 agosto 1966, giorno del loro ultimo concerto al Candlestick Park Stadium di San Francisco. Fecero un’unica eccezione (anche per cercare di ricuperare un po’ dell’entusiasmo di suonare insieme dal vivo, oscurato da una serie di beghe che li portarono poi allo scioglimento): nel freddo gennaio del 1969 allestirono un concerto sul tetto dei loro uffici londinesi, quelli della Apple Corporation, produttore peraltro anche del presente documentario.
La firma su questo documentario è di altissimo rango, niente di meno di Ron Howard, non solo, come è noto, il Richie di Happy Days, ma Premio Oscar con Beautiful Mind e regista di altri notevoli lungometraggi. E grande fan dei Beatles, visto che per il suo decimo compleanno chiese ai genitori di regalargli stivali e parrucca alla Beatles. Gli stivali non furono trovati, ma la parrucca si, e lui la indossò per diversi giorni. Segno della Beatlemania, che è il vero tema di questo documentario: la follia di vite spinte ai limiti fra registrazioni discografiche, apparizioni televisive, concerti dal vivo che trasformarono i quattro anni fra il 1962 e il 1966 in un turbinio incredibile di impegni, oltre che di guadagni. E di vero e proprio delirio degli ammiratori, una cosa difficilmente immaginabile, una vera e propria isteria che coinvolse milioni di persone in tutto il mondo.
Molto del materiale presentato per la verità non è nuovo, pur essendo stato molto migliorato, soprattutto dal punto di vista sonoro. Ci sono però una serie di brevi contributi (montati ad arte, questo bisogna dirlo) provenienti da video amatoriali raccolti fra i fan in tutto il mondo. Oltre ad una serie di testimonianze di personaggi del mondo del cinema e della musica che raccontano episodi legati ai Beatles: Elvis Costello ed il suo disorientamento all’uscita di Help!, Sigourney Weaver, presente al concerto all’Hollyood Bowl e Whoopi Goldberg che racconta la sua immediata empatia (difficile a quei tempi) di lei nera con questi quattro ragazzotti bianchi, che sembravano arrivare da un altro mondo.
E proprio la posizione dei Beatles di fronte alla segregazione razziale è un altro dei temi trattati nel film. Giunti durante l’ultimo tour negli Stati Uniti a Jacksonville, fecero aggiungere una importante clausola al contratto: non avrebbero suonato se ci fosse stata separazione fra spettatori bianchi e di colore. La separazione non ci fu, primo caso di superamento dell’apartheid due anni prima dell’uccisione di Martin Luther King.
Sono andato a vedere questo film in compagnia del caro amico Marcello Colò, batterista professionista e beatlesiano d’eccezione. All’uscita ci siamo chiesti se ne era valsa la pena. Per uno come lui, che sui quattro di Liverpool ne sa davvero tante, è stata una scorpacciata gustosa, un utile ripasso (compresa la mezz’ora extra del concerto allo Shea Stadium di New York, così come è avvenuto e restaurata video e audio). Così pure per me, che non ne so così tante, ma un po’ sì.
La cosa sicura è che è un bel documentario, curato nei particolari – ad esempio, c’è una time-line che appare ad intervalli regolari ad indicare l’uscita di un singolo o un album e le settimane di permanenza al numero uno in classifica – ricco di testimonianze e davvero utile per chi voglia immergersi in quegli anni caotici e pieni di slanci di novità. Irresistibili, anche se già viste, le scariche di humour di Lennon; ad un intervistatore che gli chiede perché la musica dei Beatles conquista così i giovani, John risponde che non lo sa, altrimenti fonderebbero un’altra band e ne farebbero i manager.
Irresistibile anche l’episodio in cui ad un altro malcapitato presentatore dice di chiamarsi Eric (peraltro ripreso e citato dai Muse in una apparizione tv di qualche anno fa in cui si fecero beffe di Simona Ventura). Chi non sapesse nulla o avesse solo una vaga idea di cosa furono quei loro primi anni potrebbe davvero ricevere una scossa da questo caleidoscopio di immagini e suoni. Infatti una delle scene migliori è una sequenza parossistica di immagini montate sull’altrettanto parossistico finale orchestrale di A Day In The Life.
È cultura questa? Possiamo parlarne, a seconda dell’accezione e dello spessore che diamo alla parola. All’intervistatore che chiede ai Beatles che posto avranno nella cultura mondiale, questa volta è McCartney che risponde: cultura? Questa non è cultura, è una bella risata. Che però ha segnato e modificato la musica di tutto il mondo. E forse anche la cultura. Se volete avere una idea di come tutto è iniziato per i Fab Four, andate al cinema a scoprirlo.