“Cuba… e i Rolling Stones”. E’ incredulo Keith Richards mentre si passa la mano sul viso quasi per verificare se è sveglio o stia sognando, davanti a quel mare sterminato di gente. Sorride emozionato. Ne ha buttati giù di muri il rock’n’roll, o almeno aiutato a farlo. Da quelli che dividevano letteralmente pubblico bianco e pubblico di colore ai concerti in America, questa musica passando sottobanco, infilandosi tra uno spiraglio e un altro, un disco di importazione, un regalo di un turista, una canzone trasmessa su una radio pirata, ha insinuato il desiderio di libertà anche nel grigiore oltre cortina, oltre il muro, quello vero. Quando ad esempio Vaclav Havel ascoltava i dischi dei Velvet Underground e battezzava come “rivoluzione di velluto” ispirandosi al gruppo di Lou Reed il suo antagonismo al regime comunista di Praga. Dal muro dell’apartheid che ha cominciato a incrinarsi grazie al primo disco di un artista bianco registrato con artisti africani, Graceland di Paul Simon, a Bob Dylan schedato dai servizi segreti della Germania Est quando nel 1987 suona nella Berlino sovietica portando una risposta nel vento. 
Da parte sua, il potere ha sempre temuto il rock’n’roll. Artisti schedati, pedinati, messi nelle black list di tutto il mondo, da John Lennon che l’Fbi voleva espellere dagli Usa a Wolf Biermann obbligato a un espatrio coatto dalla Germania Est.



“Il regime di Castro ha bandito il rock’n’roll” commenta Mick Jagger a inizio film. “Proibisci qualcosa e la rendi subito desiderabile” risponde da par suo Keith Richards. Ed è proprio così. Ed è curioso come i parametri di giudizio nei confronti di questa musica siano stati i medesimi in occidente come nel blocco comunista: ribellione all’autorità costituita, decadenza rispetto ai valori tradizionali, rifiuto del militarismo e della guerra, ribellione ai padri-padrone e al moralismo svuotato di valori, rifiuto dell’omologazione di massa e dello sfruttamento commerciale dell’esistenza. In una parola conservatori e comunisti hanno avuto paura di una cosa: la libertà sottintesa alla musica rock. Che poi questa libertà sia implosa in un nichilismo e nella vittoria, a est come a ovest una volta caduti i muri, del neo capitalismo, è un’altra storia la cui colpa non è certo dei musicisti.



Solo i Rolling Stones, la band che più di ogni altra ha significato ribellione, inquietudine, libertà poteva andare a Cuba per un evento che ha significato la caduta definitiva dell’ultimo muro (in realtà oggigiorno si fa di tutto per costruire sempre nuovi muri). Dietro a questo evento arriveranno inevitabilmente i McDonald’s e tutte le altre brutture d’America, ma non sta ai liberatori costruire il futuro. 

In realtà, come fece Roger Waters quando si esibì davanti ai resti del muro di Berlino nel 1990, gli Stones sono andati a Cuba grazie a una libertà conquistata da altri, la diplomazia del Vaticano in primis. Come l’ex Pink Floyd hanno sancito questa libertà e l’hanno festeggiata.



Un pubblico stimato in oltre un milione di persone – il concerto era gratuito – nella Ciudad Deportiva dell’Avana, pochi giorni dopo la storica visita di Barack Obama nell’isola lo scorso marzo. Questo film aggiunge qualcosa alla lunga lista di film che Jagger e soci hanno realizzato dai tempi del concerto di Hyde Park nel 1969? Esiste addirittura un cofanetto di quattro dvd che raccoglie oltre ai film usciti solo al cinema come quello relativo al tour del 1982, anche concerti particolarmente significativi e spettacolari, come quello sulla spiaggia di Rio de Jameiro pochi anni fa. Per non parlare del film definitivo sul gruppo, quello girato da Martin Scorsese e intitolato Shine a Light

Dunque aveva senso farne un altro?

Ovviamente sì, perché questa serata passa alla storia.

Gli Stones sono sempre eccitanti e in formissima, la scaletta è quella rigorosa fatta dei grandi successi, da Jumpin’ Jack Flash a Satisfaction (versione devastante quest’ultima), esclusivamente anni 60 e 70, a parte una strepitosa Out of Control con Jagger all’armonica, anche se ovviamente quella sera furono suonati molti più brani. Splendide le riprese, che si fermano a inquadrare questi vecchietti in modo quasi tenero: nessun divismo, sono quello che sono, degli anziani per cui la musica è il motivo a cui ancora dedicano l’esistenza. Oggi con tanta auto ironia.

Ma ovviamente il vero spettacolo è il pubblico. Un popolo intero (mai tante persone di colore a un concerto degli Stones, che come ogni band di rock’n’roll composta da bianchi hanno sempre attirato un pubblico bianco pur suonando musica nera) e poi meravigliosi primi piani di donnine sessantenni con pochi denti in bocca in lacrime a sentire Angie, donne mature che si coprono la bocca dall’emozione e sgranano gli occhi, facce di lavoratori, gente che si spacca la schiena – non il pubblico di fighetti ubriachi che siamo abituati a vedere dalle nostre parti – bruciate da sole, sorrisi interminabili.  

Naturalmente anche tantissime splendide ragazze. Cosa hai provato quando sei salito sul palco, viene chiesto a Mick Jagger a inizio film. “Guardava le ragazze della prima fila” interrompe ridendo Charlie Watts. “No in realtà guardavo quelle della seconda….” scherza il cantante. 

Gioia, la più pura, e senso di liberazione in queste immagini: “Non avrei mai immaginato di vedere una cosa del genere, questo è per me un sogno che si realizza. Vogliamo di più, di più, questo è l’inizio. Fantastico” dice uno spettatore.

“Gli Stones arrivano là dove i governi falliscono” commenta Keith Richards. E ha ragione. Comunque vada dal punto di vista politico tra Cuba e gli Stati Uniti, la musica rock ha già scavalcato ogni divisione e ogni ideologia. 

Hasta la victoria siempre, comandante Jagger (che ha presentato la band così: “Il rivoluzionario Ronnie Wood, Charlie “Che” Watts, il padrino Keith Richards).

Il film verrà trasmesso nelle sale cinematografiche italiane solo per un giorno, il prossimo 23 settembre. Da vedere