C’è stato un momento fra gli ultimi anni zero del terzo millennio e i primi degli anni 10 (insomma facciamo prima a dire, tra il 2007 e il 2012 circa) in cui si assistette a una rinascita musicale. Un periodo in cui era bello tornare nei negozi di dischi perché avresti trovato qualche sorpresa, come nei periodi più effervescenti della storia della musica. In realtà si trattava di un ennesimo revival, ma per una volta  non era il solito copia e incolla sbiadito e annoiato. Si sarebbe potuto chiamare “revival del folk revival” perché questi ragazzi poco più che ventenni, capello lungo freak e barba anch’essa lunga, saltavano a piè pari almeno tre decenni di musica per fiondarsi direttamente fra gli anni 60 e i primi 70.



Attingevano direttamente alla musica tradizionale, inglese e americana, preferivano le chitarre acustiche e le armonie vocali. Successe che arrivarono dischi bellissimi. I nomi? Eccone qualcuno: Fleet Foxes, Midlake, Great Lake Swimmers, O’Death, Felice Brothers, Monsters of Folk, Megafaun, Shearwater, Decemberists, Avett Brothers, Cave Singers, Mumford & Sons, Lost in the Woods, Snake The Cross The Crown, Barzin, Okkervil River, Tallest Man on the Earth.



Purtroppo nessuno di loro riuscì andare oltre un esordio notevole, qualcuno anche un paio di dischi, qualcun altro svoltò verso una musica pop elettrificata anonima e di massa ottenendo successo da stadio. Si persero, qualcuno sopravvive ancora e continua a fare buona musica, ma il momento è passato.

Kristian Matsson, uno svedese che ama farsi chiamare artisticamente Tallest Man on Earth, l’uomo più della terra anche se in realtà è piccolino di statura, fu una delle sorprese più gratificanti. Voce e chitarra acustica, suonata con un fingerpicking esaltante e anfetaminico, canzoni d’amore piene di romanticismo, rabbia e furore, come il suo punto di riferimento più evidente, Bob Dylan. 



Tallest Man, dopo una svolta elettrica full band che ha discograficamente deluso, è tornato in Italia lo scorso 16 settembre per un concerto al Fabrique, nuovamente da solo, il suo carisma, la sua voce, la sua chitarra (anzi le sue chitarre che ne cambia almeno una dozzina tra acustiche ed elettriche, anche una dodici corde elettrica).

Nel 2010 chi scrive era volato a Londra per vederlo, sicuro che in Italia non sarebbe mai arrivato, ma si sbagliava: pubblico folto al Fabrique, e come a Londra per la maggioranza giovani e giovanissimi che conoscono a memoria ogni sua canzone, sul viso hanno stampato un sorriso beato di contentezza mentre lo ascoltano. Lo amano, e molto. 

Rispetto al concerto di sei anni fa, Tallest ha perso un po’ di energia: allora lo ricordiamo pestare per tutto il palcoscenico con i piedi, in una danza sciamanica vorticosa e irruente. Oggi è più pacato, ogni tanto si siede sulla seggiola, ma non è cambiato di molto. 

La chitarra è sempre una estensione del suo corpo, un tutt’uno inseparabile, una immagine che fa scaturire l’immensa anima musicale che possiede quest’uomo, si muove piegato in due come un serpente, seguendo le onde e le vibrazioni del suo stesso suono, si aggira davanti agli spettatori delle prime file per caprine lo sguardo, si ferma per numerosi secondi fissandone uno, quasi stesse stabilendo un contatto cosmico noto solo a lui. E’ in cerca delle persone, è in cerca del contatto. E le sue splendide canzoni, in pratica tutte quelle che ha scritto fino a oggi, sono un tripudio di emozioni belle, confortanti, seppur ricche di nostalgia e di domanda aperta. 

Chi scrive ha apprezzato particolarmente la classica I Won’t be Found (una delle canzoni più belle del terzo millennio) e The Gardener eseguite in splendida  sequenza, mentre il primo brano in scaletta è stato un omaggio sentito ai suoi ispiratori, East Virginia, folk ballad resa nota da Joan Baez.

Love is All è stata cantata da tutto il pubblico, sembrava un po’ di essere al Newport Folk Festival nel 1965. Brano a cui ha fatto seguito un pezzo inedito, la bella Rivers, che ci fa capire che Kristian Matsson proseguirà a lungo su suo sentiero folk incantato.

King of Spain ha perso l’irruenza dei tempi passati, mentre la conclusione è per quella che lo svedese definisce “la più bella canzone di sempre”, These Days di Jackson Browne, che Tallest fa completamente sua nell’inimitabile stile che possiede.

Un gioiello raro, questo ragazzo, che è basso di statura ma è molto, molto grande nel cuore.