Gli Who erano una band della British Invasion. A metà degli anni Sessanta erano un gruppo costituito da quattro elementi: il burbero Roger Daltrey, stradaiolo quanto efebico; il prolifico chitarrista Pete Townshend; il silenzioso e godereccio bassista John Entwistle; il funambolico e autodistruttivo batterista Keith Moon.
Gli effettivi del gruppo sono rimasti due. Il cantante: settantenne alle prese con ciclici problemi vocali che supera alla grande con la cocciutaggine di un ragazzino. Il chitarrista: guitto e ironico englishman sul palco, cantautore esistenzialista e profondo in studio e sul web. John e Keith non sono più.
Morti di eccessi. Keith alla fine dei Settanta, insieme alle molte icone del rock d’annata. John nei primi Duemila, quando i viziosi delle decadi precedenti sembravano essere sopravvissuti.
Nei fatti, i ragazzacci sono stati due band e non una, due immaginari e non uno. Per i sottoproletari britannici, gli alfieri del mod, i killer da palco che a metà dei Sessanta sfasciavano gli strumenti e irridevano tutto: dai capireparto alle sveltine extraconiugali. Per la controcultura americana, i laboriosi strumentisti impegnati con film, album epici e performance concertistiche da favola (da Monterey a Woodstock fino al Madison Square Garden).
La truppa, o quel che ne rimane, ha messo a ferro e fuoco Bologna e Milano, il 17 e il 19 settembre, facendo pace con le proprie numerose anime: due ore di intensità, generosità e abnegazione. Uno scambio col pubblico fatto di emozioni, ammiccamenti, plettri regalati e bottiglie d’acqua buttate a meta’ tra prime file in delirio. Adorabili vecchietti a proprio agio nel music biz o artisti di granito capaci di sapere rischiare, mettersi in gioco ed entusiasmare gli stadi e le arene?
Scenografia all’osso. Solo un megaschermo con visual di spessore: dal Vietnam alle lambrette dei mod, dalla Swinging London al cinema d’autore. Sul palco un collettivo di fucilieri, integrato, tra gli altri, da Starkey alla batteria, figlio di Ringo Starr, cinquant’anni di fisico asciuttissimo, smorfie da rabdomante della rullata, un senso del ritmo scandito dagli spasmi della zazzera biondo platino.
I grandi classici uno via l’altro, roba mozzafiato per il pubblico del Forum di Assago: bella tribù dove i cultori più giovani sono pischelli teen ager e i più maturi facce rugose e serene da un pezzo sopra i sessant’anni.
L’intimismo stralunato di Can’t Explain, lo studioso balbettio di My Generation, le canzoni più belle delle opere concettuali Tommy e Quadrophenia sciorinate con lo smalto dei tempi che furono. I giochetti neobeat di Who are you e di You better you bet: manifesti di un ventennio di arguzie, anticonvenzionali ritornelli e chitarre pregiate, un ventennio che nessuno è ancora riuscito ad archiviare.
Il gran finale è senza il trito e ritrito armamentario dei rocker anziani che scendono dal palco e vengono richiamati per bis da contratto. L’apoteosi è Won’t get fooled again. Non ci faremo ingannare di nuovo. Pete, nel 1971, parla di una classe politica che vuole cambiare la Costituzione. 46 anni fa non c’era da battere le mani se il cambiamento fosse riuscito. Mezzo secolo dopo, pochi piangeranno se il cambiamento non verrà attuato. Roger ricorda al microfono, ormai esausto e a petto nudo, che il nuovo boss è straordinariamente simile al vecchio. Un po’ come gli Who: figli simili e lati simmetrici della stessa rabbia. Lunga vita.
{si ringrazia Valentina Faiella per le note ai singoli brani}