Forse il momento in cui si capisce davvero sono i titoli di coda. Mentre scorrono, si sentono le voci di Earl e Arthur Cave, che accompagnati dal padre al pianoforte cantano “Deep Water” di Marianne Faithfull. Due belle voci, ancora timide e a tratti stonate, ma libere e desiderose di alzarsi in volo. 

Le parole, sono quelle di una preghiera rivolta ad un amante lontano ma allo stesso tempo presente: “Cammino in acque profonde, è tutto quello che posso fare. Cammino in acque profonde, cercando di arrivare da te. La tua faccia è nascosta ma il tuo amore lo vedo, non cercherò altre cose finché non saprò che cosa davvero possiedo. (…) Chi calmerà le mie paure? Chi caccerà via le mie lacrime?”. 



Rivista col senno di poi, si capisce tutto, forse. Perché oggi uno di quei due ragazzi, Arthur, non c’è più, perito in un tragico incidente nell’agosto del 2015. 

E suo padre Nick, forse uno dei più grandi autori di canzoni dell’epoca contemporanea, si è affidato al regista Andrew Dominik per raccontare il processo di lavorazione dell’ultimo disco “Skeleton Tree” e per cercare di ritrovare il bandolo della matassa in quel dolore che ha aggrovigliato tutto e da cui non sembra proprio possibile uscire. 



Ha raccontato il regista che a disco terminato, l’artista australiano si fosse recato in edicola e, adocchiata una copia di Mojo (una delle più importanti riviste di settore in Gran Bretagna) avesse pensato con preoccupazione alle interviste che lo avrebbero atteso di lì a poco, all’obbligo che avrebbe avuto di dover in qualche modo esplicitare con i giornalisti le connessioni tra il nuovo lavoro e la morte del figlio (in effetti abbiamo visto i più orridi esercizi di sciacallaggio mediatico, nelle prime recensioni uscite in Italia, ad opera anche di quotate firme del settore). 

Starebbe proprio qui, l’idea alla base del documentario: raccontare tutto una volta sola, esprimere il proprio punto di vista per evitare domande stupide, inquisitorie e, magari anche questo, riuscire ad intravedere un senso che tenga insieme tutto. 



Ma forse c’è anche qualcos’altro. Un qualcos’altro di tremendamente complicato, a volerlo guardare bene. Qualche settimana fa leggevo una recensione dell’ultimo, bellissimo disco degli Okkervil River (ne ha parlato Lorenzo Randazzo su queste pagine) e mi colpiva la considerazione di Mauro Fenoglio, autore del pezzo, secondo cui “il rock più celebrato degli ultimi anni si nutre della perdita degli affetti privati.”. 

In effetti è vero. L’ultimo disco di Sufjan Stevens ha fatto impressione per come ha messo sulla piazza la storia tormentata della madre, del difficile rapporto avuto con lei, e come tutto questo avrebbe influenzato il suo cammino nel diventare una persona adulta e responsabile. 

Ma un lavoro del genere, oltre a commuovere e a far riflettere, ha anche generato dubbi e perplessità: quanto è giusto fare autobiografia spinta all’interno di un disco rock? Fino a che punto l’arte deve mescolarsi con le vicende del proprio autore, addirittura rappresentarle per acquisire densità e concretezza? 

È difficile rispondere, forse addirittura impossibile. L’idea stessa che un artista celebre come Nick Cave abbia voluto affidare al grande schermo il compito di raccontare una cosa così, potrebbe lasciarci scombussolati. 

Già, perché la presenza della telecamera è comunque di per sé ambigua. È possibile essere davvero noi stessi, sapendo che qualcuno ci sta riprendendo? Le immagini iniziali, che vedono il protagonista alle prese con la preparazione di una scena, inconsapevole (davvero?) della cinepresa già puntata su di lui, il voluto effetto di un fuori onda che serve per introdurci a quel che vedremo, a preparare l’atmosfera, sono a questo proposito particolarmente equivoche. 

A tratti è un film che riflette su se stesso, in una sorta di metanarrazione, di una rottura dell’unità narrativa e del rapporto regista/spettatore che già ai suoi tempi Pirandello aveva contribuito a frantumare, provocando un bello scompiglio in coloro che per primi si accostavano a quelle opere. 

C’è Nick Cave che viene ripreso mentre prova a fare un film, c’è lui che interagisce con la troupe e parla di come approcciare una determinata scena. E quello, te ne accorgi subito in realtà, fa già parte del film. 

Quindi quanto è giusto mettersi davanti a una telecamera a parlare di se stessi, cercando di essere naturali? Ma siamo poi proprio sicuri che l’intento fosse mostrarsi naturali? Non c’è forse, in questa costruzione in bianco e nero che la presenza del 3D non rende pacchiana ma riesce a valorizzare ancora di più nella sua delicatezza, un tentativo onesto e disarmato di reagire al dolore, di dargli un senso e potersi così alzare ogni mattina senza sentirne i morsi disperati nella carne? 

Potrebbe essere. Di sicuro c’è che per tutta la durata della pellicola, si ha la sensazione di avere davanti un uomo a frammenti. O forse, i frammenti di un uomo. La piena consapevolezza di sé e anche un certo (positivo e sacrosanto) compiacimento che si respirava nel precedente “20.000 Days On Earth”, è ormai un lontano ricordo. Qui c’è un musicista che ha avuto la vita frantumata da un lutto troppo grande anche per essere concepito e che ne è totalmente pervaso, anche quando non lo nomina con riferimenti diretti (di Arthur si parlerà diffusamente solo nella seconda parte). 

C’è un disco in lavorazione (che la tragedia ha sicuramente influenzato e contribuito a plasmare, anche se non ci è dato di sapere in che misura) e c’è un team di musicisti che sta cercando di venire a capo delle varie canzoni. 

Di sicuro i Bad Seeds non ci sono più, anche se questo lo sapevamo già da tempo. Ormai è Warren Ellis a tenere salde le redini del processo di composizione e registrazione, e anche se a sprazzi si vedono Thomas Wydler, Jim Sclavunos, e George Vjestica, è evidente come il barbuto violinista occupi un posto di ben altro livello nelle gerarchie operative. 

I pezzi, ovviamente, ne risentono. Il film ce li propone quasi tutti (manca all’appello solo “Rings of Saturn”, la seconda in scaletta), mostrandoci sia alcuni dettagli della lavorazione, sia l’esecuzione integrale in studio di registrazione, riuscendo a catturare gran parte dell’intensità che si respirava. 

 

In effetti l’idea originale era proprio quella: proiettare il film il giorno prima dell’uscita del disco, in modo tale che gli spettatori potessero fare la conoscenza delle nuove canzoni proprio in quel contesto, potendo contare allo stesso tempo di una guida all’ascolto di assoluta completezza. 

È andata così in tutto il mondo, in realtà. Da noi, che abbiamo un livello di inglese indecente (o che forse continuiamo a credere di averlo) si è dovuto attendere la realizzazione dei sottotitoli e questo ha fatto slittare il tutto di una ventina di giorni. 

Risultato: ci gustiamo molto di più i brani, ne assimiliamo ogni singola sfumatura, visto che ormai li sappiamo a memoria. Purtroppo però, non sapremo mai se l’esperienza che il suo autore ci voleva far fare, valeva la pena di essere fatta. 

Quel che è certo, è che l’oscurità presente nel disco qui è quanto mai accentuata. Il bianco e nero contribuisce, certo (non a caso l’unica parte a colori è relativa a “Distant Sky”, che è anche l’episodio dove si intravede uno sprazzo di luce, sia nella musica che nel testo) ma molto fa anche il poter guardare in faccia Nick quando le canta, quelle canzoni. 

Poi c’è poco pianoforte, pochissima chitarra, il tessuto ritmico è affidato ai pattern elettronici di Ellis, alle sue orchestrazioni leggere e a volte dissonanti, in un’accentuazione di atmosfere spezzate, come di un balbettio, di frammenti di vita che faticano ad essere ricomposti. 

Per chi scrive, si tratta di un lavoro meraviglioso, ma occorre tempo per entrarci, molto di più di quello che ci era voluto per il precedente “Push The Sky Away”, che si nutriva della stessa scarna minimalità, ma che aveva aperture luminose attraverso le quali poter respirare a pieni polmoni. 

Tra un pezzo e l’altro, c’è Nick Cave che riflette, che parla del suo dolore alla telecamera, cercando anche di chiarire che cosa voglia dire per lui, sapere che la telecamera è lì. 

Ci sono commoventi immagini di sua moglie Susie e di suo figlio Earl (molto bella la scena in cui i due gli fanno visita in studio), ci sono parole bellissime che l’ex Birthday Party dedica alla donna che ha sposato e che sta portando questo peso assieme a lui. C’è una scena in cui sono insieme, al tavolo del soggiorno, a commentare una bella foto che li ritrae all’inizio del loro rapporto e un quadro fatto da Arthur quando aveva cinque anni e ritrovato in soffitta dopo la sua morte; un momento in cui non piangere è praticamente impossibile. 

È così, c’è il dolore ma non c’è sentimentalismo, neanche un po’. Ci sono gli sforzi per ricominciare, fatti da un uomo a cui è capitato un fatto terribile e imprevisto, un fatto che non solo lo ha cambiato ma che lo ha come sdoppiato (parafrasando le sue parole), mettendolo di fronte ad un altro se stesso che è tutto un mistero e che non basterà una vita per conoscere. 

È un cammino, ovviamente. Il film non dà risposte, né quelle facili, nè quelle difficili. Non tanto perché non ne esistano, ma perché ogni dolore è unico e qualunque risposta rischierebbe di ridursi a formuletta preconfezionata. 

“Potrei anche convincermi che adesso Arthur vive dentro di me – dice verso la fine – e in tanti me lo dicono anche, ma non è così. È dentro di me, certo, ma non è vivo.”. 

Mi ha ricordato “Diario di un dolore”, quel breve scritto con cui Clive Staples Lewis ha cercato di stare di fronte alla scomparsa della moglie. E persino lui, da cattolico convinto com’era, non ha potuto sottrarsi all’incommensurabilità di quell’assenza, nella consapevolezza che potrà anche esserci una risurrezione, ma che il calice amaro va bevuto fino in fondo, fino all’ultima goccia. 

“Alla fine io e Susie abbiamo deciso di essere felici e di prenderci cura di noi, di stare attenti”. Questa è l’ultima battuta del film, se non vado errato. Poco prima c’era stata “Skeleton Tree”, una delle ballate più belle che Cave abbia scritto dai tempi di “Boatman’s Call”, a ricordarci che “Va tutto bene, adesso”. 

“Chi calmerà le mie paure? Chi caccerà via le mie lacrime? Cammino in acque profonde per arrivare da te”. Non lo sapeva, il padre che la faceva cantare ai figli, che questa canzone sarebbe di lì a poco divenuta un’ipotesi per affrontare i giorni a venire. 

Ma in fin dei conti il punto è qui. Che ci sia qualcuno che ci voglia bene, che ci asciughi le lacrime. Qualcuno verso cui camminare, sempre. 

Perché la felicità è una decisione, certo. Ma è anche e soprattutto avere una presenza accanto a sé.