Nel 1991 la rivista musicale che leggevo di più probabilmente dedicò tre righe soltanto all’uscita di Nevermind, così come anni prima gli stessi avevano dedicato tre righe ai Ramones e ai Sex Pistols e invece la copertina e dodici pagine a David Bromberg. Così sono sempre rimasto indietro rispetto a quanto succedeva nel mondo della musica, ma è una caratteristica tutta italiana rimanere tagliati fuori dal corso della storia. Un giorno che dovevamo imbiancare un locale un amico portò alcune cassette tra cui Nevermind. Pensai mentre lo ascoltavo: questi qua devono avere dei problemi. Per un momento fui quasi sul punto di comprare il biglietto per il concerto dei Nirvana al Palatrussardi del febbraio 1994, avevo finalmente capito che mi stavo perdendo qualcosa ma non sapevo bene cosa e sentivo che qualcosa di immane nella sua insensatezza stava per succedere. Forse furono le notizie che il cantante di quella band pochi giorni prima a Roma aveva tentato il suicidio, ma in realtà nessuno sapeva spiegarsi cosa fosse successo veramente.  Lo capii quella mattina dell’aprile del 1994 quando tutti i giornali stranieri che arrivavano in redazione aprivano con il suicidio di questo ragazzo biondo e le immagini di decine di migliaia di persone in lacrime nel parco di Seattle, immagini che mi riportarono di schianto a quel giorno che era morto John Lennon. Capii che l’equazione era la stessa. Avevamo perso qualcosa che era più grande della vita stessa, anche se io non ne avevo fatto parte, così come ero nato troppo tardi per far parte di quello che Lennon e i Beatles avevano suscitato. E’ sempre stata un po’ così la mia vita, arrivare in ritardo.



Poi in redazione arrivò quel disco, Unplugged, e finalmente, nella delicatezza del suono acustico e di alcuni violoncelli, toccai con mano la bellezza struggente e devastante di quelle canzoni e la voce di quel ragazzo biondo morto sparandosi un colpo di fucile in bocca che quando cantava implorava che qualcuno gli si facesse incontro, anche se la sua preghiera era strozzata dal dolore alle viscere che lo tormentava.



Se c’è una canzone, che, oltre a essere maledettamente bella, è quasi doveroso ascoltare guardandone il video, forse l’unico caso della storia credo, è Smells like Teen Spirit. Un video claustrofobico, dove umanoidi ormai privati di anima, cuore e cervello danzano sui bordi dell’inferno ignavi e ignari mentre un anziano scopa via ignorando tutto quello che gli succede intorno gli ultimi momenti senza senso della sua vita e anche la distruzione totale messa in atto dai musicisti per sollevare quella barriera che porti al riconoscimento del senso delle cose e di sé  appare inutile. Quando finalmente mesi mano sul libro Generazione X di Douglas Coupland finalmente mi fu chiaro tutto: “Siamo la prima generazione cresciuta senza il concetto di Dio”. Ecco perché ho sempre provato compassione e affetto per quel bel ragazzo biondo, ed ecco perché Nevermind è l’ultimo grande disco di una storia, quella del rock, che ha invocato la salvezza ma le è stata negata. Ed è un disco che suona ancora oggi maledettamente bene.



“Qual è quel momento che per te definisce essere vivi su questo pianeta?”. Nessuno risponde, c’è silenzio. Tobias non capisce e francamente nemmeno io. Lei continua: “Non parlo di stili di vita yuppie falsi in cui bisogna spendere dei soldi, fare gite in rafting o andare su elefanti in Thailandia. Voglio sentire parlare di qualche piccolo momento dalla tua vita che dimostra che sei veramente vivo.” (Generazione X, Douglas Coupland).