Un ciccione che si sarebbe ammazzato mangiando a cena due filoni di pane francese tagliato in tre strati imbottito con mezzo chilo di pancetta fritta, burro d’arachidi, marmellata di fragole, spesso 30 centimetri per il valore di 42mila calorie. Così si sarebbe ridotto negli ultimi mesi di vita Elvis Presley, secondo le tante leggende sul suo conto. Che fosse ingrassato era evidente, ma lui a cui la lucidità e il realismo non erano mai mancati nonostante tutto, commentava: “Secondo voi come dovrebbe essere un uomo di 40 anni?”. Altro che modelle anoressiche. Certo, anche i suoi ultimi concerti lasciavano a desiderare, spesso si dimenticava le parole delle canzoni e dimostrava di essere piuttosto annoiato. Ma poi si metteva al piano e rilasciava performance da brivido come Unchained Melody.



Elvis è morto di tristezza e solitudine, probabilmente, come tante star che si sono affidate a medici criminali che li imbottivano di anti depressivi, vedi Michael Jackson. Ma chi dice che non fosse più un grande cantante nei suoi ultimi tempi si sbaglia di grosso. Lo dimostra un doppio straordinario cd uscito la scorsa estate, “Way Down in the Jungle Room”, contenente le sue ultime incisioni prima della morte. 



Il problema di Elvis era come tutti sanno il criminale management del Colonnello Parker, l’uomo che lo aveva preso “in custodia” una volta passato dalla Sun alla Rca, nel 1956. Oltre ai film imbarazzanti degli anni 60, negli anni 70 lo aveva ridotto a mero prodotto di consumo. Elvis per contratto doveva pubblicare due dischi in studio all’anno. Siccome era impegnatissimo con tournée da un capo all’altro dell’America, il sistema scelto era quello per lui più comodo ma allo stesso tempo privo di ogni stimolo creativo.

Tra un tour e l’altro si chiudeva in studio per un paio di settimane, registrava tutto quello che riusciva a registrare, poi questo materiale veniva preso senza criterio e spalmato su dischi sbattuti là. Tanto vendevano comunque.



Ma Elvis amava cantare e amava registrare, come dimostrano queste incisioni. Nonostante tutto non aveva mai perso la passione che da ragazzino figlio di gente poverissima lo aveva reso l’uomo più ricco dì’America, un re, anzi “il re”. Per lui cantare in un camerino i vecchi gospel con cui era cresciuto, o canzoni che altri autori gli spedivano, era l’unico momento di felicità.

In questo disco sono racchiuse le sedute di registrazione del febbraio e dell’ottobre del 1976, le sue ultime. Stufo di studi di registrazioni costosi, lontani da casa e a orari fissi, e visto che i suoi studi preferiti, quelli della Stax a Memphis, avevano chiuso già nel 1973, Elvis pensò di costruirsi uno studio di registrazione nella sua villa di Graceland. D’altro canto negli anni 70 era diventato comune per molte rock star fare altrettanto, per avere la massima libertà e il minor stress psicologico. Dagli Stones in Costa Azzurra a Elton John in un castello del nord della Francia, i musicisti cercavano solo di stare lontani da manager, avvocati e tecnici anonimi.

Fu così che trasformò il salone di casa sua in quella che divenne la “giungle room”, un nome perfetto per un angolo di libertà degna di una giungla. 

Sebbene il suo repertorio ormai avesse poco a che fare con il rockabilly e il rock’n’roll della gioventù, Elvis aveva mantenuto intatto il suo amore per il country soul del sud degli States, che già ai tempi della Sun era apparso evidente. E della Sun, il minuscolo studio di Memphis dove Sam Phillips aveva scoperto il genio del cantante, aveva mantenuto lo stile di registrazione. Tutti insieme in una stanza, senza cabine divisorie dove il batterista non poteva vedere il cantante e il cantante non vedeva il chitarrista. Nella Jungle  Room ci si guardava in faccia e la musica fuoriusciva potente e liberatoria.

Questo doppio contiene nel primo cd tutto il materiale finito nei suoi due ultimi album di studio, “From Elvis Presley Boulevard, Memphis, Tennesse” e “Moody Blue” uscito poco prima della sua morte. Il secondo invece è la grande sorpresa e l’ultima gemma dello sconfinato tesoro dell’artista a emergere. Sono registrazioni inedite di quelle session casalinghe, dove Elvis e musicisti provano i brani poi pubblicati e altri rimasti inediti.

Come essere una mosca sul muro, possiamo sentire Elvis divertirsi e scherzare, dimostrazione che nonostante i panini da 42mila calorie era rimasto lucido e coinvolto nella sua musica fino alla fine. Percepiamo la sua serietà e dedizione totale alla musica, nel provare e riprovare lo stesso brano fino a quando non sente di essere in grado di cantarlo. Lo sentiamo incazzarsi con il tecnico: “Ehi perché non mi dici che stai registrando? Cazzo guardami negli occhi, parlami quando stai per farlo, non usare quello sguardo sospettoso con me”. Oppure: “Nonna portaci da bere!” per distendere il clima.

E la musica. Come quando Elvis si rivolge al pianista David Briggs quando tutti gli altri musicisti ormai se ne stanno andando a casa e gli dice: “Dove vai, fermati qui, non ho finito”. E con lui da solo costretto a improvvisare si mette a cantare una versione da brivido del vecchio tradizionale irlandese Danny Boy

Intorno a lui musicisti straordinari, i membri della TCB Band (Ronnie Tutt alla batteria, James Burton alla chitarra, Glen Hardin al pianoforte, David Briggs al piano e alle tastiere, Jerry Scheff al basso e gli straordinari coristi dei The Stamps), suo gruppo accompagnatore dal vivo, ma anche altri session men di vaglia come Norbert Putnam al basso, Billy Sandford alla chitarra e Bobby Emmons alle tastiere.

Come raccontano loro nel bel libretto incluso, Elvis non aveva bisogno di spiegare i pezzi o cosa voleva dai musicisti. Per loro era sufficiente guardarlo mentre cantava, se il suo corpo si agitava e si muoveva voleva dire che dovevano alzare il tiro, oppure rimanere quieti. Il che la dice lunga di che performer fosse, un uomo in cui la musica scorreva come il proprio sangue.

 

Tra i pezzi migliori di queste incisioni c’è senz’altro Way Down, un funk rock di potenza e ritmo implacabili, degna delle sue migliori incisioni, pubblicata nell’album del 1976 e passata inosservata, per diventare una hit dopo la morte. Altrettanto ispirate sono Blue Eyes Crying in the Rain, un vecchio brano di Fred Rose reso popolare da Roy Acuff e Hank Williams, la straordinaria carica soul di She Thinks I Still Care e la capacità di trasformare la vecchia hit di Johnny Ace, Pledging my Love, in un pianto da roadhouse. 

Anche nei momenti più banali, dove è evidente l’amore che Presley aveva per cantanti come Dean Martin, non riesce a trattenere la capacità di emozionarsi ed emozionare. Non sono cover, come non lo sono mai state per un artista che se non scriveva canzoni, sapeva trasformare ogni brano altrui come se lo avesse scritto lui. Infine la sua ultima hit, Moody Blue, dove Elvis dimostra che se avesse vissuto ancora un po’ avrebbe spazzato via anche i nuovi idoli della disco music, dai Bee Ges in giù.

Elvis Presley muore il 16 agosto 1977, circa un mese dopo che l’album “Moody Blue” viene pubblicato. Un disco malamente assemblato, con brani in studio e pezzi dal vivo, uno dei quali risalente addirittura al 1974. Questo nuovo cd ha allora anche il merito di mettere ordine nelle pessime pubblicazioni di allora, ma anche nelle disordinate ristampe seguite alla sua morte. Resta un fatto: fino ai suoi ultimi giorni di vita, Elvis Presley, un gradino appena sotto a Frank Sinatra, è stato la più grande voce del Novecento.