Per fortuna esiste il Circolo Magnolia a due passi da Milano. Da anni qui si prova non solo a fare live interessanti ma anche qualche festival con idee e selezioni di artisti non prevedibili, come succede in tutto il resto del mondo. Già ad inizio estate mi aveva colpito positivamente il Festival Moderno con Blood Orange e Grimes su tutti.
Il primo settembre mi ritrovo di nuovo al Circolo per la due giorni di UNALTROFESTIVAL 2016. L’idea è di alzare ancora di più “l’asticella” delle proposte artistiche con set molto diversi tra di loro. Non nascondo che la mia attenzione (in verità amore incondizionato) va quasi esclusivamente al live dei Daughter. Alfieri di un sound rock ombroso, notturno, delicatamente elettrico e emozionale. Non è qui il posto giusto per parlare dell’importanza dei loro lavori in studio ma anche nel live si confermano ipnotici: il pubblico rimane rapito dal lieve canto (quasi sussurri) di Elena Tonra e canzoni quali “How”, “Tomorrow”, “Numbers” e “Alone/Wih You”, le prime quattro eseguite, rapiscono da subito orecchie e cuori nonostante qualche perplessità sull’impianto (il suono risulta eccessivamente ovattato).
Evidentemente su “Shallow” e “Smother”, pezzi pregiati del primo album, il pubblico si riappropria della propria voce ma sempre con la dovuta deferenza verso quanto accade sul palco. Anche quando i ritmi si alzano su “No Care” e “Fossa”, la cantante rimane il punto focale e carismatico fino a traghettare tutti i presenti alla catarsi collettiva di “Youth” e la conseguente sensazione di appagamento per la rara bellezza appena vissuta.
Passo indietro. Ad inizio serata si sono esibiti sul palco secondario i Sunday Morning, band di Cesena, set tirato, classic rock tra Neil Young e Pearl Jam e suoni saturi e potenti. Dopo di loro il main stage ha accolto i Landlord, voce femminile eterea, suoni ispirati ai The XX con qualche velleità synth anni 80, pronti a lasciarsi alle spalle l’esperienza di X Factor 2015 salendo sui palchi di tutta Italia. Li ho preferiti su ritmi più serrati piuttosto che sulle ballate pop, ma promossi in attesa delle prossime evoluzioni (il loro nuovo lavoro “Beside” uscirà il 30 settembre).
Di nuovo ci si sposta al palco piccolo per la sorpresa più grande, almeno dal punto di vista mediatico: The Strumbellas e la loro hit “Spirits”. La canzone in heavy rotation sulle nostre radio è il modo più semplice e veloce per descrivere la proposta (live) della band canadese: un po’ Mumford & Sons, un po’ Lumineers e qualche spruzzata dei Coldplay più blandi. Insomma siamo dalle parti di quel folk molto gioioso, casinista, radiofonico e poco altro.
Tornando al main stage ci aspetta Edward Sharpe & The Magnetic Zeros. Applausi a scena aperta e vibrazioni da headliner da parte del pubblico. La band è composta da più di 10 componenti dove troneggia (e gigioneggia) per tutto il set il cantante Alex Ebert che in canottiera bianca canta, parla, dialoga col pubblico e lancia i ritornelli delle canzoni, suscitando il singalong. Il pubblico, soprattutto femminile, è rapito dal suo carisma e dimostra di conoscere non solo le canzoni ma il “modus operandi” dell’artista che, accompagnandosi a lunghi sorsi dalla bottiglia di vino che si è portato sul palco, presenta uno spettacolo di canzoni folk rock, pop rock, country pop e chi ne ha più ne metta. Un set quasi circense di un artista che relega il gruppo quasi al ruolo di comparse e si diverte con i suoi fan, scendendo anche tra di loro per farsi abbracciare e ballare insieme fino a chiedere anche ad alcuni partecipanti di narrare al microfono le loro storie di vita vissuta.
Sinceramente, anche dopo qualche giorno, sono in difficoltà ad esprimere un giudizio tranne che rimane qualche perplessità nella scelta di un live di questo tipo prima del set dei Daughter. Un conto la varietà ma forse qui il salto è stato un po’ troppo lungo. Ammetto però che potrebbe essere la percezione sbagliata di un fan dei Daughter.
Il secondo giorno mi affretto subito al primo set previsto, quello di Birthh, band toscana capitanata dalla diciannovenne Alice Bisi. Il suo album d’esordio di qualche mese fa è a mio avviso un gioiello e anche dal vivo si confermano una rara perla nel panorama nostrano: suoni elettronici minimali, scelte di arpeggi chitarristici quasi lo fi, ritmi spezzati e fieramente dark pop. E la voce di Alice a emozionare. Bello.
Il resto è stato un susseguirsi di set sempre nell’ottica della grande diversità: l’inglese Flo Morrissey, anche lei molto giovane, da sola con la sua chitarra a ricamare i suoi bozzetti folk acustici (momento topic la cover dei Tuxedomoon “In a Manner of Speaking”), Fil Bo Riva, romano di nascita e residente a Berlino, dotato di una vocalità molto potente e di brani a cavallo tra folk, blues e soul con attitudine decisamente popular.
Infine le due band più attese della giornata: i Ministri e gli Editors.
I primi giocano in casa: “Cronometrare la polvere”, “Comunque”, “Spingere” tra le tante vengono cantate a squarciagola dai tanti fan accorsi e l’esecuzione della band è molto sentita, forte della propria esperienza e carica di quelle connotazioni rock spigolose marchio di fabbrica della band. “Abituarsi alla fine” in chiusura regala alla folla l’happy ending. Non sono un gran fan dei Ministri ma devo ammettere che, viste le reazioni del pubblico, la loro storia ha fatto decisamente centro.
Invece sono un fan della prima ora degli Editors, ho visto tutti i tour di ogni loro uscita e considero Tom Smith una delle voci più belle di questo inizio millennio. Risulta subito evidente la caratura del gruppo non solo dal numero delle persone che si affollano sotto il palco ma da come il loro live risulterà il più mainstream e potente dell’intero Festival. E loro conoscono perfettamente il campo da gioco eseguendo brani da ogni album realizzato: i suoni morbidi di “No Harm” e “Marching Orders” dall’ultimo lp, l’elettronica coinvolgente “Eat Raw Meat = Blood Drool” e l’inno electro “Papillon” dall’album “In This Light and On This Evening”, le cavalcate epiche di “Smokers Outside The Ospital Dors” e “Rancig Rats” dal secondo album e la sempre magnifica “joydivisioniana” “All Sparks”. C’è spazio anche per il quarto album, a mio avviso punto più basso della loro carriera, con i brani quali “Formaldehyde” e la cantatissima “Ton of Love” che mi ricorda ad ogni ascolto quel film “Volevamo essere gli U2”.
Perché il problema con gli Editors è probabilmente questo: l’obiettivo del leader assoluto Tom Smith sembra proprio quello di portare la sua creatura a diventare una band da stadio, addirittura forse la più famosa band della sua epoca e questo tentativo, negli ultimi anni, lo sta perseguendo a discapito di qualunque scelta musicale e artistica. Le capacità compositive e vocali le ha sicuramente ma purtroppo mi sembra evidente il dislivello di qualità tra i primi lavori di impianto wave e gli ultimi, maggiormente orientati al pop rock da classifica (vedi la caramellosa “Ocean of Night”). Detto questo i loro live rimangono sempre qualcosa da vedere e ascoltare tutto in un fiato.
P.S. Un saluto caloroso al signore due file davanti a me che ha ripreso tutto il concerto con il telefonino impallando quasi sempre il palco per tutti quelli dietro a lui. Duro lavoro documentare gli eventi per i posteri…