Cambiare opinione è perfettamente lecito, soprattutto quando non si cerca di nasconderlo. Parlando del nuovo disco “L’amore e la violenza”, Francesco Bianconi ha detto che “quando penso a questo disco l’aggettivo che mi viene in mente con più frequenza è colorato. Sembra una scemenza, una frase fatta, ma se ci ragiono mi rendo conto che già l’associare una connotazione cromatica a una esperienza auditiva è un fatto per nulla banale. “Fantasma”, ad esempio, era un disco ricchissimo di strumenti, suoni e parole, eppure se lo ascolto non gli associo affatto il concetto di “ricchezza cromatica”. È un disco monocolore, e se proprio dovessi sceglierne uno, di colori, direi il grigio scuro”.
È una considerazione che mi ha fatto balzare sulla sedia perché ricordo bene che, all’epoca di “Fantasma”, intervistato su Rockit, obiettò con queste parole al giornalista che gli diceva che quello fosse un disco a tinta unita: “Non sono d’accordo, è il disco più colorato che i Baustelle abbiano mai fatto. Già solo il fatto che non sia compresso, che per me vuol dire rendere il suono monocolore. Un’orchestra sinfonica la si registra diversamente, c’è tutta una dinamica, c’è tutta una serie timbri non paragonabili a quelli di basso-chitarra-batteria. Se questo disco lo recensisse un giornalista che si occupa di classica ti direbbe che è coloratissimo.”
Da una parte è normale che sia così: un artista cambia la percezione dei propri lavori, man mano che passano gli anni. Dall’altra però, mi piace pensare che alla lunga anche il cantante e paroliere toscano si sia reso conto che quel suo sesto lavoro in studio non era uscito poi così bene come pensavano all’epoca.
Non mi era piaciuto granché, “Fantasma”, e lo avevo scritto senza mezzi termini, provocando la reazione piuttosto stizzita da parte della casa discografica, che forse si era dimenticata che le recensioni non devono per forza essere tutte positive…
I Baustelle, con l’Indie italiano hanno sempre avuto poco da spartire. Troppo raffinati, troppo preparati e troppo consapevoli, troppo profonda la loro scrittura, anche nei momenti più leggeri e dissacranti, per poter essere accomunati ad artisti che oggi nel loro piccolo sbancano le classifiche come “Thegiornalisti” “I Cani” o “Calcutta”.
Certo, hanno avuto anche loro il momento di gloria, prima con “La malavita” e poi con l’esplosione mediatica di “Charlie fa surf”, singolo che ha spopolato tra i giovani e ha dato ai suoi autori quella fama che ancora adesso si portano dietro e che li ha fatti diventare un nome imprescindibile del rock italiano.
Ma i ragazzini universitari col cocktail in mano che mi sono trovato di fianco mezzi ubriachi qualche anno fa, l’ultima volta che li ho visti dal vivo, non sono per nulla esaustivi del tipo di pubblico che la band di Bianconi sa muovere.
I Baustelle hanno sempre guardato lontano, hanno consumato e metabolizzato la grande eredità del cantautorato nostrano, si sono nutriti del nostro Neorealismo e hanno gradualmente spinto la loro musica verso confini più distanti e impegnativi.
Così, quando con “I mistici dell’occidente” prima e “Fantasma” poi hanno cercato di accostarsi a De André e di spingere più in profondità la loro narrativa, si sono guadagnati le lodi sperticate della critica ma non hanno propriamente accontentato chi comprava i loro dischi.
Per carità, è giusto tentare nuove strade ed è altrettanto giusto avere un’alta opinione di se stessi: Francesco Bianconi non è un gran cantante ma scrive da Dio, assieme a Simone Lenzi (che in questo disco è coautore della divertente “Eurofestival”) e a Paolo Benvegnù è la penna migliore che abbiamo in Italia. Purtroppo per lui, ha forse fatto il passo più lungo della gamba: i Baustelle del dopo “Amen”, detto proprio fuori dai denti, erano diventati un gruppo soporifero e a tratti terribilmente irritante (nonostante certi pezzi de “I mistici dell’occidente” non fossero male).
Giunti ora al loro settimo lavoro in studio, hanno deciso di fare quella che forse è una mossa comoda ma che di sicuro troverà gradimento in seno a molti: tornare alle origini.
“L’amore e la violenza” è stato definito dalla band stessa come la versione matura di “Sussidiario illustrato della giovinezza”, il loro disco di debutto.
Si può dar loro ragione anche se, ascoltandolo, l’impressione è che suoni più come una via di mezzo tra “Amen” e il secondo lavoro “La moda del lento”: quella pressoché totale assenza di chitarre, con i synth che spadroneggiano senza mezze misure, quella dose massiccia di melodie orecchiabili e irresistibili, quell’atmosfera malinconica e insieme oltraggiosa, quella sorta di volgarità trattenuta che aveva costituito l’aspetto più interessante dei primi dischi.
“Amen”, dopo tutto, aveva rappresentato un perfetto punto d’arrivo. È stato il disco della maturità, per come metteva l’attitudine degli esordi al servizio di brani meravigliosamente complessi e immediati, un elevare il livello della canzone pop come ancora nessuno forse era riuscito a fare in Italia.
Cosa fare da lì in avanti, non era una questione facile, in effetti. Abortito il tentativo di virare verso un livello più adulto e sofisticato di scrittura, si ritorna così a quel terreno più famigliare nella consapevolezza, forse, che sia meglio di una eccessivamente piena d’incognite terza via.
Al di là di tutte le speculazioni filosofiche che possiamo metterci a fare sul ripetere se stessi, sul rifugiarsi in una tranquilla comfort zone, quel che resta è che “L’amore e la violenza” è un grande disco, forse l’unico che davvero volevamo sentire in questa fase della loro carriera.
“Amanda Lear”, per dire, è il pezzo più incisivo che abbiano scritto dai tempi di “Charlie fa surf”: un tripudio di melodie cantabili e un’attitudine disincantata, che ne fanno un inno dell’amore effimero, della rassegnata consapevolezza che niente dei desideri di una coppia sopravvive all’inesorabile consumarsi delle cose (“I wanna be Amanda Lear, il tempo di un LP, il lato A, il lato B, non siamo mica immortali, bruciamo ed è meglio così, Amanda Lear soltanto per un LP, il lato A, il lato B, che niente dura per sempre nemmeno la musica”).
L’amore come un “disco dell’estate”, dunque: si ascoltano entrambe le facciate un po’ di volte e poi lo si butta via. Esattamente come succede adesso, con la differenza che i dischi interi ormai non sappiamo più che cosa sono.
Ma la cifra della nostra epoca è questa, inutile girarci intorno. Così che Bianconi può affermare liberamente, nel ritornello de “Il Vangelo di Giovanni” che “Io non ho più voglia di ascoltare questa musica leggera”.
Lo diceva già Battiato ai tempi de “La voce del padrone” e forse non è un caso che i brani “leggeri” dell’artista siciliano fungano più volte da modello per gli episodi più orientati al synth Pop di questo lavoro (l’attacco de “La musica sinfonica”, ad esempio, deve molto a quello di “Voglio vederti danzare”).
L’impressione è però che sia difficile uscirne, che non ci siano molte risposte: “Essere felici non è facile, è bello ma impossibile, è musica sinfonica in discoteca” canta Rachele Bastreghi, da sempre contraltare di Francesco, figura dalla personalità unica senza la quale il gruppo non sarebbe lo stesso.
E ne “La vita”, episodio agrodolce ispirato alla canzone d’autore francese, uno di quelli dove ritornano gli echi di “Fantasma”: “La vita è tragica, la vita è stupida però è bellissima, essendo inutile”.
È iniziato il nuovo millennio, siamo in guerra ma la gente ha ancora voglia di amare. Eppure, in qualche maniera così confusa ma lucidamente consapevole, i giovani si rendono conto che non c’è possibilità di costruire qualcosa, che tutto è labile e ci lascerà insoddisfatti e svuotati.
Sarà stata l’esperienza personale del cantante, da poco diventato padre e separatosi dalla sua compagna, ma questo disco, accanto al consueto humor nero e a un certo modo pulp di raccontare la realtà, contiene un livello di tristezza che non si avvertiva nei primi lavori e che è propria di una band che, pur tornando indietro a livello di sound, non può farlo dal punto di vista anagrafico.
Intervistato qualche giorno fa da Rolling Stone, il trio di Montepulciano ha precisato che questo lavoro sarebbe da vietare ai minori di 35 anni. In effetti, nonostante il giovanilismo di certi episodi, i ragazzi che urlavano a squarciagola le parole di “Gomma” e de “Il liberismo ha i giorni contati”, forse faranno un po’ fatica a capire ciò che si nasconde davvero in fondo a “L’era dell’acquario” e ad “Amanda Lear”.
Nello stesso tempo però, tra i miei contatti Facebook vedo tanti che denigrano i Baustelle, trattandoli come un fenomeno inconsistente, eccessivamente gonfiato dalla critica. E, ironia della sorte, sono tutti over 35.
Quindi, che fare a questo punto? Dove e come collocare questo gruppo? Che tipo di prospettive sociali e cronologiche indicare per loro?
Probabilmente si tratta davvero di una band per 35-40enni; la band per una generazione che è arrivata all’età adulta e che si è resa conto che qualcosa è andato storto, che quell’età adulta non è come se la immaginavano, che ci sono problemi che non avevano calcolato e che non si capiscono, e che quindi, sarebbe forse meglio gettarsi alle spalle le responsabilità e tornare adolescenti per qualche tempo.
Musica per una generazione che ha smarrito la direzione, quindi: che magari ti dice anche che la vita è bellissima ma che non riesce a capire che utilità possa avere, questa bellezza.