L’ultima volta che ho visto dal vivo i Dropkick Murphys, qualche anno fa, mi aveva colpito il fatto che avessero dedicato il brano “Your Spirit’s Alive” ad un ragazzo italiano da poco scomparso. Ho poi saputo che prima del concerto si erano fermati a parlare con alcuni giovani fan, i quali avevano raccontato alla band di questo loro amico, grande amante del gruppo, e morto qualche tempo prima in un incidente. Da qui, colpiti probabilmente da questo dialogo, hanno deciso di ricordarlo durante il concerto.
Può sembrare un episodio da poco ma getta luce sull’attitudine di una band che si è sempre comportata più da famiglia, piuttosto che da gruppo rock, e che ha sempre avuto l’incontro con la gente e l’attenzione ai bisogni dell’altro come punto fermo all’interno del proprio cammino artistico.
“11 Short Stories of Pain And Glory”, il loro ultimo disco in studio, il nono della loro carriera, è nato proprio a partire da esperienze di questo tipo: nel 2009 Ken Casey e soci hanno contribuito a fondare il “Claddagh Fund”, un’organizzazione che si occupa dell’aiuto ai tossicodipendenti e ai veterani di guerra. Nella città di Boston, dove vive e opera da sempre, il gruppo è una presenza silenziosa e costante, con questo tipo di attività, e adesso ha deciso di raccogliere alcune di queste esperienze e di inserirle nei brani del nuovo disco.
Un disco che nasce sempre sulla strada, quindi, che parla sempre di battaglie, di sangue, sudore e onore, ma che questa volta ha un altro senso, un’altra sfumatura, è un tributo a tutti coloro che cercano ogni giorno di riscattare le proprie sofferenze e di costruirsi una vita degna di essere vissuta.
C’è un altro punto di novità in questo lavoro, perché dopo tanti anni, il gruppo è andato a registrare fuori della propria città natale: il cantante e bassista Ken Casey ha spiegato questa decisione dicendo che ormai, con mogli e figli al seguito, lavorare a Boston in maniera continua avrebbe costituito una distrazione eccessiva. Così sono andati ad El Paso, in Texas, dove hanno goduto per qualche settimana di un’atmosfera più consona ad uno studio di registrazione.
“11 Short Stories of Pain and Glory”, per il resto, è un disco dei Dropkick Murphys, nulla di più. Da qualche anno il gruppo si è progressivamente discostato dal Punk Hardcore delle origini e ha infarcito il proprio sound di chitarre acustiche, fiddle, bagpipe e altri strumenti di questo tipo, andando a guardare molto di più dalle parti dei Pogues e rendendo molto più esplicite le proprie radici irlandesi.
Tutto molto bello, in effetti, ma se “Going out in Style” risultava fresco ed ispirato, il successivo “Signed and Sealed in Blood” aveva accusato qualche segno di stanchezza e aveva mostrato come questa formula rischiasse di divenire un po’ ripetitiva.
Questo nuovo capitolo non fa eccezione: personalmente lo trovo un po’ più dinamico del precedente ma dal punto di vista stilistico siamo sempre qua.
I Dropkick Murphys sono bravissimi a scrivere veri e propri anthem, sono abili e scafati quanto basta per giocare con le melodie (l’iniziale “The Lonesome Boat”, col suo tema portante che esplode poi in un coro da stadio, ne è un esempio illuminante) e a creare canzoni fatte apposta per scatenare entusiasmi sotto al palco. Da questo punto di vista, “Rebels With a Cause” e il singolo “Blood” partono con il piede giusto: la prima è la solita veloce cavalcata con le voci di Ken Casey e Al Barr che si alternano nelle strofe e un ritornello perfetto per essere cantato a squarciagola; la seconda ha un andamento epico e cadenzato, ed ha un chorus potente che, immaginiamo, dal vivo funzionerà immediatamente.
Il resto degli episodi scorre in questa direzione: la differenza la fanno gli arrangiamenti perché di volta in volta il gruppo sceglie se alleggerire il sound utilizzando gli strumenti acustici (“Paying My Way” o “First Class Loser”, ottima nonostante faccia un po’ il verso alla vecchia “Worker’s Song”), oppure pestare a più non posso, pur nella considerazione che i giorni del Punk sono tramontati (“Sandlot” o “Kicked To The Curb”, quest’ultima altro potenziale singolo”).
Non manca nemmeno la cover del brano tradizionale: dopo le varie “The Fields of Athenry”, “The Auld Triangle”, “The Irish Rover”, (che hanno forse contribuito al successo su larga scala del gruppo come e più del fatto che Martin Scorsese li abbia voluti nella colonna sonora di “The Departed”) ecco arrivare una notevole rilettura di “You’ll Never Walk Alone”, scritta nel 1945 per il musical “Carousel” ma approdata presto nel mondo del rock per la versione che ne fecero Gerry and the Peacemakers nel 1963.
Oggi è forse più conosciuta per essere l’inno dei tifosi del Liverpool ma ci sono altre squadre di calcio che amano riprenderla di tanto in tanto e gli stessi Pink Floyd la usarono in questa veste nell’album “Meddle”. La versione dei Dropkick è suggestiva, sa giocare perfettamente col crescendo e il ritornello è davvero esplosivo. Sarà un grande successo e sembra fatta apposta per far arrivare il gruppo anche in quei posti dove di musica se ne ascolta poca.
Niente di nuovo sotto il sole, quindi. E a noi restano solo un paio di considerazioni da fare: primo, che con un genere così le innovazioni a disposizione sono davvero minime e che quindi, da un certo punto di vista, che questo disco sia simile o identico al precedenti non dovrebbe neppure essere oggetto del discorso.
Secondo, l’immobilismo stilistico di certe band è un problema solo e soltanto per certi critici musicali: i fan di quel determinato gruppo saranno spesso e volentieri ben contenti di ritrovare le solite rassicuranti certezze nelle canzoni dei propri beniamini.
Tutto questo per dire che chi ama i Dropkick Murphys vuole sentire solo e soltanto questa roba qui. A livello di singoli episodi, non sarà dunque il loro capitolo migliore, ma è abbastanza gradevole da essere ascoltato più di una volta e dal vivo ci garantirà il solito macello sopra e sotto il palco. Probabilmente è abbastanza così.