Di solito l’introduzione a un libro la si affida a qualcuno che, più o meno volutamente, esalti e incensi l’autore del libro stesso e quello che ha scritto. Un biglietto da visita affidato a un nome importante per fare bella figura insomma.

Nel caso dell’autobiografia di Mario Luzzatto Fegiz, decano dei critici musicali italiani (“Troppe zeta nel cognome, vizi pubblici e private virtù di un critico musicale”, Hoepli, 247 pagg.) il nome illustre c’è (Pippo Baudo ne è l’autore), i complimenti e le buone parole molto poche. Come dice lo stesso Baudo, Fegiz è stato a lungo “una mina vagante” e come dice Fegiz, “ho inventato un genere che non esisteva: la stroncatura”. 



Questo è un libro coraggioso, dove si fanno nomi e cognomi, si critica e ci si autocritica, a volte c’è cinismo altre volte ci si commuove: “Ero ambizioso, volevo superare tutti i colleghi, cercavo lo scoop a tutti i costi, fino a quando lo scoop sono diventato io”. Si paga un prezzo alla fine a voler arrivare sempre per primi, e Fegiz lo ha pagato con una lunga crisi personale da cui è uscito, come dice lui, grazie alla psicanalisi e alla fede: “Pensi che stasera devo tenere il corso fidanzati della mia parrocchia, 29 persone, peggio della giuria di Sanremo” dice ridendo. 



Questo libro è un dietro le quinte di affascinante contenuto e anche il ritratto di una Italia (e di un mestiere) che non esiste più. E una dichiarazione di amore per la musica: “La musica cura tutto e tutti, è un medico senza frontiere. La musica è una di quelle arti dove quando meno te lo aspetti appare Dio”.

Un libro coraggioso, a volte cinico, a volte auto critico, soprattutto onesto: quale definizione le sembra più azzeccata?

E’ un libro che è venuto fuori a spizzichi e bocconi, si può anche dire che è riduttivo rispetto a quello che è successo veramente. E’ venuta fuori una biografia illuminata dallo Spirito Santo in molti sensi. Nel 2006 nella mia vita c’è stata una svolta, avevo un vuoto da colmare, e ho cominciato a riflettere su me stesso e su quanto era accaduto.



E cosa ne ha tratto?

Ero stato un giovane molto ambizioso, volevo superare i colleghi, ma sono stato anche molto fortunato per la gente che ho incontrato, per essere entrato in un giornale che ti pagava per fare una cosa bella che è difficile definire un lavoro, ho avuto la fortuna di occuparmi di musica ma non su un giornale solo ma cinque o sei tra cui la radio la tv.

Una vita sempre di corsa…

Direi che la definizione “libro coraggioso” è la migliore, ma non è neanche un santino, basta vedere quello che Pippo Baudo ha scritto.

Uno dei capitoli più interessanti è quando racconto di essersi costruito una radio per trasmettere in casa tra il salotto e la cucina. Oggi siamo abituati ad avere tutto a portata di click, una volta la passione era quello che muoveva a costo di fare fatica, debiti, battaglie. E’ così?

Fu una esperienza di follia e di divertimento. Avevo comprato uno dei primi trasmettitori a transistor, costava 500mila lire, e si rompeva ogni due giorni: succedeva sempre di mattina, ma non capivamo perché. Poi abbiamo capito che era colpa dell’aspirapolvere della domestica, procurava una resistenza induttiva che creava picchi che arrivano anche a mille volt sulla linea , oltre ad arrivare bollette della luce pazzesche. Così abbiamo capito che non dovevamo collegarlo alla linea di casa. Eravamo degli “absolute beginners” in tutti i sensi, è stata una esperienza pirotecnica.

 

Il mondo dei media con le nuove tecnologie è radicalmente cambiato; una volta c’erano pochi giornali su cui fare affidamento, oggi è una esplosione di siti, di giornalisti che si improvvisano tali, sui social ognuno dà la sua opinione, la figura del critico come quella che rappresentava lei ha oggi pochissima valenza. Cosa comporta questo? Una babele senza punti di riferimento?

Direi di sì, è così. Una volta ho detto che mi hanno derubato del mio mestiere di critico spalmandolo sulle giurie popolari e i televoti. Oggi non si sa più chi o cosa sia strategico. Se sei fortunato la promozione di un libro la vai a fare da Vespa o da Fazio, altrimenti devi cercarti uno spazietto da qualche parte. Ma questo vale anche per chi produce dischi, non esiste più un metro giudicante. 

 

Oggi chiunque si fa il disco in casa, una volta esistevano persone che valutavano prima di farti incidere un disco.

Quando mi chiedono consigli io dico sempre; cerca di trovare un gruppo di persone con cui lavorare e cerca di essere felice facendo quello che fai. Il successo è qualcosa che può arrivare nei modi più inaspettati ma può anche non arrivare mai.

 

A Sanremo ovviamente dedica grande spazio. Quest’anno sul palcoscenico avremo Maria De Filippi: cosa significa, è la resa del festival alla regina dei talent show?

Sanremo oggi è la coppa campioni dei talent il che di per se non è un dramma. Io odio la De Filippi come autrice, ma l’adoro come presentatrice, mi piace questa sua flemma quasi britannica. C’è bisogno di qualcuno che sia calmo, in televisione urlano tutti, lei ha un modo di presentare poco enfatico che mi piace molto. Per quanto riguarda i cantanti, quelli provenienti dai talent da anni sono la metà del cast, purtroppo è inevitabile che sia così.

 

Lo scorso anno abbiamo assistito alla scomparsa di tanti grandi artisti, per malattia o età avanzata. E’ il segno che un’epoca storica si sta chiudendo definitivamente? Ci sarà qualcuno in grado di rimpiazzarli?

Volerei ancora più alto: riusciremo a vedere di nuovo una saldatura tra la musica e la coscienza collettiva? La magia degli anni 60 e 70 è stata propria questa, la saldatura. Troveremo artisti che riescono a trasformare in arte i battiti della coscienza collettiva? questa è la domanda. Non è vero che di Beatles non ne nascono più, siamo noi che non ci siamo più. Tanti grandi cantautori del passato scrivono ancora belle canzoni, ma sostanzialmente inutili perché non sono collegate a una coscienza collettiva.

 

In conclusione?

Ogni decennio ha avuto la sua musica, ogni musica la sua droga. Gli anni 60 sono stati quelli della grande utopia, del libero amore e della marijuana. Gli anni 70 quelli della prima crisi petrolifera, della disoccupazione, del punk e dell’eroina. Gli anni 80 quelli della crisi finanziaria, degli yuppie, la cocaina e la disco dance. Gli anni 90 quelli dello sballo del weekend, della techno e dell’ecstasy. Dopo di che ho perso il conto.

(Paolo Vites)