In laguna, Tannhäuser di Richard Wagner mancava da circa cinquant’anni dal Teatro La Fenice e vent’anni da tre recite  al Tronchetto quando, durante il restauro de La Fenice, le stagioni si svolgevano  in un tendone.

Un ritorno quindi molto  atteso anche  perché si presentava come uno spettacolo pieno di promesse: Omer Meir Wellbern sul podio, regia di  Calllisto Bieito (noto per le suo versioni trasgressive anche  di opere per educande), un grande  cast internazionale, coproduzione con i teatri d’opera di Anversa, Berna e Genova.  



Del lavoro esistono due versioni principali: quella di Dresda del 1843 (molto diatonica, tersa e compatta) e quella di Parigi del 1861 (con intere sezioni cromatiche) rivista, dopo alcuni mesi, per Vienna. 

I due “Tannhäuser” sono opere profondamente differenti nella concezione drammatica e nella partitura. Tranne poche modifiche (il balletto richiesto dell’Opéra e proposto come “baccanale” all’inizio dell’opera, invece che al secondo atto, così come da prassi), il testo di arie, recitativi, sestetti non è cambiato (“Tannhäuser”, precede “Lohengrin”, ed è un’“opera romantica” in senso stretto, non un “musikdrama”). 



Nel 1842-45 Wagner era un buon luterano, fedele alla moglie Minna (con cui aveva condiviso molte ristrettezze prima di approdare al “posto” a Dresda) e lavorava per la puritana Corte di Sassonia. 

La vicenda del bel menestrello fuorviato dal piacere della carne, del suo pentimento e del perdono divino, era un apologo edificante, in cui vere e proprie “canzoni” venivano inserite nel flusso orchestrale. Nel 1860, invece, non soltanto Wagner era stato costretto ad aggiungere il balletto, ma conduceva un’esistenza sessuale quanto meno distinta e distante da quella che avrebbe dovuto seguire un buon luterano. 



Aveva abbandonato Minna, dopo averla tradita con varie ninfette e veline ante litteram, stava per portare via la moglie al proprio benefattore (l’industriale tessile Wesendock), aveva un ménage à trois con Cosima Litz e il di lei marito (il suo direttore d’orchestra favorito von Bülow), anzi à quatre (perché nel letto di Cosima finiva spesso l’allora giovanissimo Hermann Levi, che qualche anno dopo, dato un “ben servito” a von Bülow, ne avrebbe preso il posto come direttore d’orchestra favorito di casa Wagner).

Il tutto accompagnato da un fiume inarrestabile di denaro, proveniente dai suoi benefattori. Chi non ha il tempo o voglia di leggersi le monumentali biografie di Wagner (la più nota è in ben sei volumi), trova il tutto in un piacevole libro di 150 pagine di alcuni anni fa  (Vincenzo Ramón Bisogni “Richard Wagner- Das Rheingeld, un fiume di denaro”, Zecchini Editore).

Questa vita complicata si rispecchia a pieno nella “versione di Parigi” del lavoro: Venere non è un genio del male da bordello (il Wagner trentenne li frequentava, nonostante avesse continui complessi di colpa dato che voleva essere fedele a Minna), ma una donna appassionata e sinceramente innamorata del menestrello, disposta a tutto pur di tenerlo nel suo letto, nel primo atto, e riportarcelo, nel terzo. 

La partitura, inoltre, è intrisa di cromatismi , quelli con cui in “Tristan und Isolde”  Wagner avrebbe gettato il germe della musica contemporanea. Buon senso consiglierebbe di scegliere, mentre si preferiscono versione ibride come quella denominata  “di Monaco 1994”, che si è vista anche alla Scala alcuni anni fa.

A La Fenice è in scena una di tali versioni ‘ibride’: il primo atto è quello parigino del 1861 mentre il secondo e il terzo sono quelli presentati a Dresda nel 1843. Un scelta, si pensava , voluta da Bieito di cui sono note le regie trasgressive a cui la scena iniziale del baccanale avrebbe dato adito ad ogni sorta di sregolatezza. 

Invece il primo atto si apre  in una densa foresta dove lussuriose ninfe e satiri (se ci sono) sono nascosti da folti fusti di alberi pieni di foglie. Il dramma è incentrato sul menestrello che vuole tornare dai suoi compagni e colleghi e dalla figlia del Langravio di Turingia, Elisabetta, da un lato e Venere che lo vuole di trattenere con sé. 

La foresta resta nella seconda parte dell’atto, quando  Tannhäuser ritrova i suoi compagni. Non mancano trasgressioni, ma in tono minore. Diventano più serie quando dopo la gara di canto e il tentativo  di quattro dei colleghi di stuprare in gruppo Elisabetta che aveva tentato di difendere Tannhäuser il quale nella gara aveva cantato l’amor carnale invece di quello ‘celestiale’: fin troppo scoperto il voler mostrare l’ipocrisia dei quattro ‘celestiali’. 

Non di meglio il terzo atto quando, ancora in un ambiente lugubre e scuro, il rapporto tra Elisabetta e Wolfram (il miglior amico di Tannhäuser) resta quanto meno ambiguo, il coro di pellegrini che rientrano da Roma è avvolto tra le nebbie o in buca, l’ultimo tentativo di Venere di riappropriasi di Tannhäuser è vagamente lascivo e la morte ed il funerale di Elisabetta sembrano algidi. Quindi, una regia (ed un allestimento scenico da dimenticare, scene di Rebecca Ringst, costumi di Ingo Kruler, luci  di Michael Bauer) da dimenticare.

Di livello invece la parte musicale nonostante il protagonista Stefan Vinke, abbia cantato solo la sera della prima e sia stato successivamente allettato dell’influenza (e sostituito da colleghi volati in laguna dal mondo musicale tedesco). 

La sera in cui ho assistito all’opera (il 24 gennaio), ha interpretato il ruolo del titolo, l’irlandese Paul McNamara arrivato a Venezia poco prima dell’inizio dello spettacolo non ha potuto provare la regia di Bieito (forse un pregio). Ottima l’impostazione della voce, timbro squillante, acuti raffinati. Austrine Stundryte è una Venere  più passionale che sensuale. E’ invece sensuale oltre che religiosa Liena Kinéa  nel ruolo di Elisabetta . Cristoph Pohl è un Wolfram di ottimo livello. 

Tutti bravi gli altri numerosi cantanti e attori, molto numerosi da citare e commentare. Una menzione speciale meritano i giovani del Kolbe Children Choir del centro culturale di Mestre Venezia diretti da Alessandro Coffolo.Ben calibrata le concertazione di Omer Meir Wellbern.

In breve questo Tannhäuser merita un CD – da evitare un DvD.