“I sogni imprevedibili. Possono essere belli, brutti, stravaganti, inquietanti. Rassicuranti o spaventosi. A volte vorresti svegliarti prima che finiscano, a volte vorresti non svegliarti mai, A volte il risveglio è un sollievo, altre volte una delusione. Ma i nostri sogni sono indispensabili per capire meglio chi siamo”. Così scrive Marco Diamantini con parole che farebbero felice Carl Jung nell’introduzione al libro dei testi con traduzione che ha scritto per la sua band di sempre, i Cheap Wine (disponibile ai concerti e sul sito ufficiale del gruppo). Perché i sogni sono la chiave per entrare in contatto con il nostro Io profondo, quello  che sin dalla nascita regole e imposizioni vogliono censurare e soffocare, ma che è impossibile reprimere, e trova proprio nei sogni il suo modo per comunicare con noi.



“Dreams”, sogni, è anche il titolo del nuovo, eccellente lavoro del gruppo marchigiano. Incredibile pensare che dietro ci siano vent’anni di dischi e concerti. Una storia lunga, quasi impossibile in Italia per qualunque band che non abbia colto un successo di massa. Ma i Cheap Wine ci sono ancora, e lottano insieme  a noi, viene da dire, perché di noi tutti hanno sempre saputo raccontare l’essenza. 



La band indipendente per eccellenza italiana conclude con “Dreams” una sorta di trilogia ideale cominciata con l’amarissimo e disperante “Based on Lies” del 2012, continuata con i primi squarci di redenzione nel successivo “Beggar Town” e conclusa oggi. Forse. Perché sebbene “Dreams” sia un invito alla speranza, a seguire i propri sogni per rimanere vivi, il clima musicale è a tinte scure, lente ballate rock che si muovono appunto come dei sogni, insinuatrici, pericolose, tra realtà e irrealtà. Il dubbio resta, perché così è la vita: niente scuse, niente menzogne. Un clima oscuro che però si dipana man mano nel disco, come la luce che all’alba squarcia il buio della notte e dei suoi incubi che vanno a trasformarsi in sogni e poi in realtà. Così è musicalmente il disco: l’inizio graffiante, incalzante della rollingstoniana Full Of Glow che ci precipita di schianto in questa notte; la cupissima, cadenzata come da campane a morto Pieces of Disquiet, visioni di follia, con la chitarra  che rilascia rasoiate che feriscono; Bad Crumbs, ballata gothic dark. Le luci cominciano a irrompere con la deliziosa Cradling my Mind, che fa toccare con mano i meravigliosi paesaggi collinari delle Marche alle luci del mattino presto e poi con la ballata rock pimpante, sostenuta da uno splendido organo anni 60, alla Ray Manzarek, For the Brave



Da qui è un viaggio verso la speranza, illuminato dalla melodia tenue molto british folk di Reflection con flauto e violoncello fino alla title track conclusiva, uno spoken word in crescendo dove il finale è appannaggio del sempre eccellente Michele Diamantini, che qui si diverte a importare lo stile tipico del miglior Mark Knopfler.

Un disco che ha nell’accuratezza sonora la sua arma vincente: bisognerebbe rivolgersi al mago del missaggio Chuck Plotkin per ottenerlo, invece qua siamo davanti al risultato di un crowdfunding. Sembra di essere in studio di registrazione con loro, la pulizia e la qualità sono altissime, le tastiere e il piano elettrico del bravissimo Alessio Raffaelli emergono dai riff chitarristici, mentre alla sezione ritmica è data tutta la dignità che merita.

I Cheap Wine confermano la loro attitudine coraggiosa: ogni disco è una nuova sfida, prima di tutti per loro stessi, poi per gli ascoltatori. Nessun piatto facile servito sulla mensa della banalità. Qua si gioca per vincere o morire. 

Visti dal vivo allo Spazio 89 di Milano proprio in questi giorni, in una sala stracolma di pubblico, dove hanno presentato per intero il nuovo disco, pur con qualche emozione dovuta al bisogno di rodare il nuovo materiale, si sono confermati quella potentissima macchina da concerti che sono, con un delizioso omaggio a Tom Petty (A Face in the Crowd) e la loro capacità, a differenza di tanti gruppi nostrani, di cavalcare sonorità diverse, esplorandole a fondo, dai Pink Floyd anni 70 al progressive dei primi Genesis mantenendo bene i piedi nel rock americano da cui hanno preso origine. Fino alla esplosione finale della magnifica Fairytale, lunghissima e incantata, dove emerge la compattezza sonica di una band che non ha rivali in Italia.