Non è una ricorrenza: il centenario della prima rappresentazione fu nel 2010 e venne celebrato degnamente Palermo, a Roma e al Festival Pucciniano di Torre del Lago; l’anno prossimo sarà il centenario del Trittico che, in effetti compare nei cartelloni di vari teatri che lo misero in scena, in un bell’allestimento di una decina di anni fa. Tuttavia questo è l’anno di La Fanciulla del West scelta per inaugurare la stagione del San Carlo di Napoli ed in questi giorni a Cagliari (la prima è stata il 20 ottobre) in una edizione memorabile sotto l’aspetto organizzativo, registico e musicale. Un’edizione che merita di essere studiata a fondo da altre fondazioni.
In primo luogo, sotto il profilo organizzativo, si tratta di una coproduzione tra otto teatri americani ed italiani. Ha debuttato in aprile a Charlotte, sede della Carolina Opera, ha avuto una serie di rappresentazioni alla New York City Opera al Lincoln Center. E’ a Cagliari, il cui teatro lirico è stato il motore di tutta l’operazione, per dieci recite. Andrà, poi, a Lucca (dove Puccini nacque) e da lì a Pisa, a Livorno e a Ravenna. La Fanciulla del West richiede un’orchestra gigantesca, di dimensioni straussiane o wagneriane e ben sedici solisti, di cui tre protagonisti e tredici personaggi secondari. Essi non sono dei comprimari ma personaggi ben scolpiti ciascuno con una sua caratterizzazione ed una sua vocalità. La protagonista è un soprano drammatico in grado di cantare Strauss e Wagner. Il tenore deve avere un robusto registro di centro. Il baritono è da melodramma italiano. Solo cooperando tra più teatri si possono mettere insieme i cast richiesti. Una collaborazione Italia – Stati Uniti ha poi il vantaggio di dare una “patina” americana ad un lavoro tratto da un dramma di successo a Broadway ma metabolizzato dall’italianissimo Puccini.
In secondo luogo, sotto il profilo musicale, occorre ricordare che La Fanciulla debuttò al Metropolitan con un cast stellare (Emmy Destinn, Enrico Caruso e Pasquale Amato nei tre ruoli principali) guidato da Arturo Toscanini. E’ noto che Toscanini aveva la pessima abitudine di rimettere mano alle partiture, di cui era invitato ad eseguire i lavori. E’ meno noto che a Milano nel 1919 fu capolista del Partito Nazionale Fascista alle elezioni comunali. In questa sede ha rilievo il rimaneggiamento delle partiture: ne soffrì soprattutto Franco Alfano, il cui finale integrale di Turandot è stato riproposto negli Anni Sessanta del secolo scorso, ma nonostante la sua innegabile superiorità rispetto a quello “di tradizione” si usa ancora oggi la versione “ritoccata” da Toscanini. Per La Fanciulla del West la mano di Toscanini comportò l’eliminazione di un duettino tra la protagonista ed un giovane indiano, un certo numero di battute nella rissa tra minatori al primo atto e soprattutto una sostanziale semplificazione dell’orchestrazione (l’orchestra – scrisse Gianandrea Gavazzeni – è la vera protagonista del lavoro).
Alla Scala è stata presentata nel maggio 2016 una nuova produzione di Robert Carsen con Riccardo Chailly sul podio. Chailly aveva promesso un meticoloso lavoro per restituire La Fanciulla del West alla stesura originale di Puccini. Il diavolo, però, ci ha messo la coda: la protagonista scritturata Eva-Maria Westbroek si è ammalata ed è stata sostituita da Barbara Haveman che ha cantato il ruolo a Francoforte (sono pochi i soprano che lo affrontano) la quale è di fatto andata in scena senza prove. Quindi non si è ascoltato il “duettino” ma in compenso la scena della rissa tra minatori e l’orchestrazione sono come volute da Puccini. A Cagliari, Donato Renzetti ha concertato l’edizione più vicina all’originale pucciniano: ossia la partitura orchestrale è stata restituita a come la aveva concepita Puccini, nella scena della rissa sono stati riaperti i tagli, ma non si è potuto restituire il “duettino” in quanto manca nell’edizione a stampa di Ricordi. Forse per la prima volta si sono potute apprezzare la ricchezza e la modernità della partitura. Fatta di frammenti musicali continuamente ricomposti (come in Leoš Janácek ma i due compositori non si conoscevano e non conobbero mai le opere dell’uno e dell’altro), con echi dei leitmotif wagneriani, precorre molti aspetti della musica orchestrale del “Novecento Storico” ed affascina più che mai.
Anche nella parte vocale, la scrittura è moderna ed ha punti di contatto con Leoš Janácek, segno che a Torre del Lago ed in Moravia si stava lavorando su linee simili. Prevalgono il declamato, ed i momenti a più voci. Ci sono un paio di duetti ed un grande arioso per il tenore nel terzo atto, nonché brevi interventi lirico- drammatici per il soprano: Svetla Vassilleva è stata superba, nell’emissione, nel fraseggio e negli acuti (particolarmente quello che ha segnato la sua entrata in scena al terzo atto). Di ottimo livello sia Marcello Giordani sia Roberto Frontali, sia, soprattutto i numerosi personaggi minori.
In terzo luogo veniamo alla regia, scene e costumi di Ivan Stefanutti ed ai video di Michael Baumgarten. Di norma si parte dall’assunto che Puccini era affascinato dalla “settima arte”, il cinematografo e La Fanciulla del West sembra un copione per Hollywood. Nella California delle febbre dell’oro, Minnie gestisce un “saloon” per minatori; si trinca whisky; ci si azzuffa e si spara, ma in un’atmosfera da Cral (ossia da dopolavoro) poiché tra una rissa e l’altra, la bella giovane ostessa da tutti desiderata tiene lezioni di alfabetizzazione e spiega la Bibbia. Lo sceriffo Jack vorrebbe portarsela a letto, ma la fanciulla lo respinge sia perché non ha “ancora dato il primo bacio”, sia in quanto innamoratasi dello “straniero” Dick da desiderare di andare con lui sotto le lenzuola. Dick è un ladrone in fuga, ma Minnie non lo sa. Finisce col pernottare (ma in giacigli separati) nella casa della ragazza. Lo sceriffo lo scopre, Minnie ingaggia con lui una partita di poker dove mette in palio la vita di Dick o la propria verginità. Barando, vince e salva temporaneamente il ladrone di cui è innamorata.
Braccato, quest’ultimo finirebbe sulla forca se non arrivasse a cavallo, Minnie con due Colt cariche di piombo e un discorso ai minatori. Dick viene perdonato e i due lasciano la California. Questo intreccio viene di norma messo in scena come un Western degli Anni Trenta. Stefanutti e Baumgarten, pur mantenendo il libretto ed il clima del Far West intatti, la leggono come una dichiarazione d’affetto per quella umanità che sembra destinata a lottare ed a non vincere mai (non solo i minatori ma anche Minnie, Dick e Jack) ma che quando riesce ad essere se stessa vince sempre, come Minnie, Dick, i minatori e pure Jack nel commovente terzo atto.
Anche a ragione delle differenti dimensioni dei teatri, la scenografia è semplice: attrezzeria essenziale per i vari luoghi dell’azione e proiezioni. Rende l’azione ancora più pregnante.
Al termine ovazioni per la Vassilleva ed applausi intensi per tutti.