Claudio Trotta è un po’ il Bill Graham italiano. Forse non molti sanno chi fu costui, visto che il promoter di concerti è un po’ quella figura del mondo musicale che meno appare, ma il suo ruolo è fondamentale. Se non ci fosse lui, non ci sarebbero i concerti. Per Bill Graham, scomparso nel 1991, il fondatore della critica musicale rock, coniò parole che valgono anche per Claudio Trotta: “Non hai bisogno di una chitarra per essere una rock star”. Da impresario di compagnie teatrali, Graham divenne l’uomo che lanciò, tra i tanti, band come Grateful Dead e Jefferson Airplane e tutta la scena californiana; aprì locali leggendari dove vennero incisi i più grandi dischi dal vivo, come il Fillmore East e il West e il Winterland; portò in Italia Bob Dylan. Era conosciuto come un burbero, uno che non faceva sconti a nessuno, neanche ai suoi artisti, perché aveva in mente una cosa sola: portare la musica alla gente, condividerla, far sì che le persone fossero felici. 



Claudio Trotta per chi lo ha conosciuto di persona, per chi ha preso parte ai concerti da lui organizzati e per chi lo conoscerà attraverso le pagine di questa autobiografia “No pasta no show” (divertente, appassionante, anche auto critico, si legge benissimo) edita da Mondadori (200 pagine, euro 19,90 con un ricco inserto fotografico) è uno così: figlio d’arte (bellissima la lettera della madre attrice posta a inizio libro, figlia a sua volta di una donna di spettacolo) con il mondo dello spettacolo nel sangue, ha cominciato dal nulla fino a organizzare concerti negli stadi. Come Graham, è un personaggio a volte burbero e severo (chi scrive ricorda ancora un fax lungo tre pagine che rispondeva nel dettaglio alle mie critiche per quello che avevo definito “pessimo sound” di un suo concerto, spiegando ogni dettaglio tecnico di cosa significa lavorare all’acustica di uno spettacolo, difendendo non se stesso ma la persona che lavorava al mixer, una lezione di giornalismo che mi porto ancora dietro), ma solo perché ha in testa un pensiero unico: che i suoi concerti siano organizzati nel modo migliore per il pubblico. Indipendente, voce fuori del coro di un mercato che negli ultimi anni si è dimostrato corrotto e avvilente, per nulla rispettoso del pubblico pagante, ci ha rimesso talvolta di tasca sua, anche rischiando il fallimento economico. Senza di lui, l’Italia non avrebbe mai avuto la possibilità di vedere dal vivo alcuni dei più grandi nomi della storia del rock. Perché, come Bill Graham, lui ama la musica, non l’ha ridotta a merce di scambio.



In questo libro ci sono 40 anni di storie raccontate in modo spigliato e mai noioso. Dagli inizi, in un momento storico fecondo per chi amava la musica, la fine degli anni 70 quando la fame di concerti in Italia era diventata una emergenza visto il black out vissuto per quasi tutto il decennio, si imbarcò in modo avventuroso, un po’ hippie, portando due leggende a bordo di un pulmino scassato a suonare da noi. Per tutti coloro, decine di migliaia, che avevano vissuto la storia del rock solo sui dischi fu l’inizio di una avventura che dura tutt’oggi: John Martyn e Bruce Cockburn. “Riuscite a immaginare qualcuno che inizia la giornata con un Bloody Mary con cui accompagnare le pastiglie di Tavor? O qualcuno che nello stesso concerto riesce a bere diciassette lattine di birra, una bottiglia di whisky e un litro e mezzo di vino rosso? (…) Al nostro primo giorno quello del primo spettacolo organizzato da Barley (maggio 1979, nda) John Martyn mi diede un pugno bello secco nell’occhio (…) perché non gli piaceva l’hotel dove lo avevo sistemato”. Chiunque altro avrebbe mollato lì, non Trotta, che anzi ammette che il pugno se lo era meritato e che da quel giorno ha imparato a prestare attenzione ai minimi dettagli.



E chi avrebbe mai detto che il giorno in cui Bruce Springsteen, diventato poi negli anni il suo artista di punta, suonò per la prima volta in Italia a San Siro nel 1985, Claudio Trotta non vide un minuto di concerto. Il suo compito quella sera leggendaria era di fare il giro dello stadio all’esterno in bicicletta a controllare che non ci fossero problemi di sorta. Tutto questo significa fare la gavetta, dal punto più basso e umile, e imparare il mestiere sulla propria pelle, o meglio con un pugno nell’occhio e il culo sul sellino di una bicicletta. Di storie come queste è pieno il libro, ma anche di retroscena dolorosi, ad esempio la figura del promoter Franco Mamone, che tanto gli insegnò, raccontata senza peli sulla lingua. O le brucianti sconfitte, come il progetto sulla carta straordinario del festival di Sonoria (nella prima edizione del 1994 quasi lo stesso cast che si sarebbe esibito un mese dopo a Woodstock) con poche migliaia di spettatori e il rischio della bancarotta totale (in appendice i dieci migliori concerti da lui organizzati ma anche i dieci flop: chi altri citerebbe questi ultimi?). 

Ma al di là dei grandi eventi da lui organizzati che tutti conoscono, dai festival di heavy metal agli AC/DC o i Kiss, per noi gente “affamata” di musica, Trotta è quello di Bruce Cockburn, Lynyrd Skynyrd, Ry Cooder, Michelle Shocked, Randy Newman, quello che dovette annullare Gregg Allman e Steve Miller Band per i pochi biglietti venduti, quello di Black Crowes e Kris Kristofferson per la prima volta in Italia: come diceva Paul Williams, non hai bisogno di una chitarra per essere una rock star. In questo senso, Trotta è una rock star per il bene che ha fatto alla promozione della musica di qualità in Italia.

Battaglie vinte e battaglie perse, battaglie ancora aperte. Come quella contro il secondary ticketing che Trotta porta avanti praticamente da solo con coraggio, ben analizzata in queste pagine in tutti i suoi dettagli. Alla fine quello che ne viene fuori è la vita di un uomo totalmente immerso nella sua passione, la musica, anzi la Bellezza, come la chiama lui: “Credo nella Bellezza e nel contagioso benessere che scaturisce da essa. Ecco cosa voglio continuare a fare da grande. Voglio contagiare ed essere contagiato dalla Bellezza, voglio sostenerla e promuoverla”. 

Anche con un sogno rimasto per sempre nel cassetto: organizzare un concerto dei Grateful Dead in Italia. Ma va bene lo stesso.