Ultimamente Morrissey ha fatto più notizia per la rocambolesca vicenda romana del contromano in via del Corso, piuttosto che per la qualità o meno della sua produzione musicale. Non è una cosa così assurda: l’ex Smiths non è nuovo ad uscite e a comportamenti sopra le righe e in più all’epoca dei fatti non c’erano ancora nuovi dischi di cui parlare.
Non sappiamo se davvero, come ha promesso, il suo nuovo tour non comprenderà l’Italia per ripicca nei confronti di una polizia che, a detta sua, gli avrebbe leso i diritti fondamentali; vero che sono uscite le prime date e vero che al momento siamo stati lasciati fuori ma la speranza è che qualcosa tocchi anche a noi, prima o poi.
Per adesso concentriamoci su questo “Low in High School”. Che arriva a tre anni di distanza dal precedente “World Peace Is None of Your Business”, siglando il debutto della Etienne Records, etichetta fondata dallo stesso cantante (la scelta migliore, visto che non è mai stato proprio tenerissimo con quelle con cui ha lavorato in passato) e distribuita dalla BMG.
Un disco eloquente, sin dal titolo e dalla copertina, che rappresentano le principali componenti della poetica dell’artista di Manchester: se il titolo è infatti un richiamo esplicito a tutta quella mitologia da outsider, da escluso che il nostro ha raccontato sin dai tempi degli Smiths e che è stata fondamentale per il suo successo, la fotografia della cover allude invece alla sua anima “politica” e antagonista, sintetizzata forse al meglio in “Margaret on the Guillotine”, uno dei suoi primi brani da solista.
Arrivato dunque al traguardo dell’undicesimo lavoro in studio, Morrissey ha deciso di andare sul sicuro e di mettere in scena una sorta di celebrazione di se stesso. Si rimane in linea coi progetti più recenti, insomma: quattro anni fa c’era stata la splendida autobiografia (che temo in Italia non verrà mai tradotta, la capirebbero in pochi), quest’anno è arrivato “England is Mine”, il biopic ispirato ai suoi anni giovanili (ok, non è una roba sua ma ha comunque sempre fatto parlare del personaggio in sé).
Registrato tra Roma e la Francia e prodotto da un grande nome come Joe Chiccarelli (che sul disco precedente si era occupato del missaggio), “Low in High School” è un disco poco rock, che si muove molto di più nell’ambito della musica popolare e del Pop più colto e raffinato. Lo si vede sin dall’opener “My Love, I’d Do Anything for You” che ha un bel ritmo saltellante ed è impreziosita dai fiati nella parte centrale. Fiati che sono presenti anche in “Jacky’s Only Happy When She’s Up on the Stage”, un altro Pop molto gradevole con degli archi che gli conferiscono un tono liberatorio.
Sono forse le ballate a rappresentare la cifra principale di questo disco, da quelle più spiccatamente emozionali e magniloquenti (“Home is a Question Mark”, “I Bury the Living”, quest’ultima vittima di quella prolissità che ogni tanto rischia di appesantirne il lavoro) a quelle più ispirate a quel crooning anni ’60 che è sempre stato un po’ nelle sue corde (“In Your Lap”, la conclusiva “Israel”). Qua e là affiorano suggestioni mediterranee, come in “The Girl From Tel Aviv Who Wouldn’t Kneel”, dove c’è un andamento da fiera paesana e una fisarmonica che guida le danze con serena disinvoltura.
Non molti, in verità, gli episodi di facile presa, all’interno di un lavoro più riflessivo e anche un po’ incupito, che fa davvero poche concessioni alla spensieratezza. Ci sono ovviamente i due singoli, anche se “I Wish You Lonely” funziona complessivamente meglio. E poi “When You Open Your Legs”, che a dispetto dell’iniziale ritmo arabeggiante, si rivela come il brano più autenticamente morriseyano di tutto il disco, vero e proprio inno da cantare a squarciagola.
Che dire invece dei testi? È innegabile che questo sia sempre stato il punto di forza del mancuniano: ironia tagliente, linguaggio ricercato, un talento letterario notevole. Questa volta si rimane sotto le aspettative, forse per l’eccessiva tendenza a rimanere dentro il personaggio, tentazione che ha reso il risultato complessivo un po’ stereotipato. C’è tanta politica, forse di più che in tutti gli altri lavori: ci sono ben tre canzoni su Israele (forse sarebbe meglio dire “contro”, di sicuro uno come lui non avrebbe problemi a decidere cosa fare, nel caso lo invitassero a suonarci) e a riguardo la sua lettura della situazione in quella regione è abbastanza sbrigativa: “A che cosa pensi siano dovuti tutti questi conflitti? È solo perché dalla terra sgorga il petrolio.”.
Non mancano le solite invettive contro la classe politica (“I presidenti vanno e vengono e già dopo due settimane nessuno ricorda i loro nomi”), i giornalisti (“Smetti di guardare le notizie, perché le notizie contribuiscono a spaventarti, a farti sentire piccolo e solo, a farti sentire come se la tua mente non ti appartenesse.”), sul fatto che l’individualismo sia la miglior risposta ad ogni potere (“Le tombe sono piene di sciocchi che hanno dato la vita per ordine della monarchia, dell’oligarchia, del capo di stato, dei potentati. E adesso? Non torneranno più!”).
In mezzo a tanti concetti già espressi altrove, anche in maniera più efficace, spicca però l’intuizione di “Who Will Protect Us from the Police”, che affronta la drammatica situazione del Venezuela, cosa che nessun musicista famoso aveva mai fatto prima, almeno che io sappia. “Papà, chi ci proteggerà dalla polizia?” chiede un bambino spaventato e in cerca di conforto. “Dio lo farà” risponde il genitore. Ma “dobbiamo pagare per quello in cui crediamo, dobbiamo venire uccisi per quello in cui crediamo” prosegue il pezzo e il finale è di acerba disillusione: “Mi dispiace papà, ma non posso crederti” dice il figlio scoraggiato. “Figliuolo, corri!” è la risposta del genitore, evidentemente anch’egli sovrastato dall’orrore e dal pericolo.
“Posso rispondere solo a Gesù e con la grazia di Dio, morirò nel mio letto. Se ti stai chiedendo che cosa c’è nella mia testa, ti risponderei che c’è solo odio per tutto il genere umano”. Alla fine Morrissey è questo, prendere o lasciare. C’è di buono che, al netto di qualche episodio sotto tono e a una tendenza ad alimentare volgarmente il proprio mito (cosa che comunque, in un modo o nell’altro, ha sempre fatto), “Low in High School” si dimostra un disco valido e decisamente più a fuoco del predecessore.
Scusate se è poco, per un artista che bene o male viene dato per finito un anno sì e un anno no.