Il disco finisce più meno così come era cominciato, ma con un surplus di enfasi che si intona al gusto del commiato.  Bird si salda al brano introduttivo Juno ponendo il sigillo alla struttura circolare della musica e della scrittura della cantautrice anglo-indiana.  Nerina Pallot – con il nuovo album “Stay Lucky” – esibisce come non mai la propria cifra distintiva sia nel brano di apertura che in quello di chiusura, affidando alle fasi intermedie del lavoro l’orgogliosa conferma dell’intrusione virtuosa nel canzoniere di quattro decadi di pop, rock e cantautorato.



In quell’inizio Juno è come una dichiarazione d’intenti, intima e forsennata nello svelare sussurri e grida dell’anima dell’autrice, che mira, ricama e arrotonda frasi vocali a fior di pelle e melodie pianistiche con la dolcezza e la crudeltà di chi spende giudizi ultimi sul proprio e altrui posto nel mondo. 



Se nello splendido “The Sound and The Fury” (2015) la nostra faceva il punto sull’attualità e sulla storia in maniera apertamente sociale, qui agisce di rimessa sotto la metafora dell’antica divinità romana per una nuova indagine che muove principalmente dal privato.  E rivedendo la propria esistenza riflessa in volti, momenti e situazioni altrui va ad esplorare, talora in maniera inconsapevole, il segno lasciato in lei dal patrimonio di certa grande musica.  Il disco si trasforma allora in una girandola di rimandi e richiami partendo dai Fleetwood Mac in Man Didn’t Walk On The Moon, per proseguire con la bruciante apoteosi bacharachiana di una Come Into My Room che accosta le proprietà romantiche di una Alfie alle effusioni vocali ambrate di una Julie London.  Un sussulto da crooneuse che non rimane isolato ma che trova man forte nelle sfumature jazzy da melanconica spy story di The Heart is a Lonely Hunter e nella più compassata Come Back to Bed.  Il quadro complessivo pullula di immagini retrò sul gioco dei sentimenti, con le ansie, i sotterfugi, i suoi eterni alti e bassi e i suoi rituali talora un po’ossessivi, come in una Better i cui virgulti armoniosi alla Steely Dan vengono filtrati nella sensualità fragile e impaziente della Pallot.



Una celebrazione dell’energia liberatoria e ansiolitica del gesto amoroso, dove si insinuano inevitabili e umanissimi momenti d’inquietudine, da una Stay Lucky che è cronaca di vicinanza nella malattia, all’attrazione enigmatico/metafisica di All Gold.  Sotto la produzione autarchica della Pallot con l’ausilio della dolce metà Andy Chatterley, il tocco di valenti musicisti della band di Michael Kiwanuka – su tutti l’eccellente tastierista Steve Pringle e ancora il “Suede” Bernard Butler alla chitarra in tre brani – l’album riporta la protagonista alla dimensione congeniale dell’asse portante piano/voce, con tanto di benedizioni orchestrali e strumentazione mista tra modernità, vintage e contributi vocali assortiti.     

E – come anticipato – si collega all’inizio di Juno con una spumeggiante Bird (immagine antropomorfica legata alla dea della fertilità), che ingloba nel soul bianco dell’autrice digressioni progressive-pop fino all’esplosione corale in stile Broadway musical.  In definitiva una sintesi dell’originale pensiero musicale della Pallot, che ci consegna un mantra conclusivo.  Per stare all’altezza del cuore un sentire forte è meglio che un non sentire e la chiave è vivere la propria vita come fosse oro.  Richiamo forse ovvio ma salutare come fondamento minimo di un vivere speranzoso.