Tim Vantol suona la chitarra acustica con pennate potenti e precise, producendo un suono compatto e graffiante nonostante la pulizia, ideale accompagnamento per la guerra che dà l’impressione di stare combattendo sul palco. Urla le sue canzoni con una rabbia e una gioia liberatoria, le vene del collo in evidenza e un timbro roco che non va a discapito dell’espressività. 



Giù dal palco, in un Ligera particolarmente imballato, stanno le persone che ha conosciuto in questi cinque anni da che suona a Milano, gli amici incontrati per strada e con cui ha condiviso birre, strette di mano, abbracci e sguardi sinceri. In molti conoscono le sue canzoni, le cantano con lui, urlano i ritornelli, fanno casino anche quando non dovrebbero, scandiscono il coro “Amsterdam Amsterdam, ce ne andiamo ad Amsterdam” ogni qual volta lui gli lascia un minimo di spiraglio, cioè sempre. D’altronde a Tim interessa poco: “Do the Fuck You Want” è il titolo di una sua canzone e il messaggio viene lanciato e preso assolutamente alla lettera. 



È davvero una sorpresa vedere che un artista così di nicchia, in un paese dove imperversano le Tribute band e i locali continuano a chiudere, riceva un consenso così affettuoso e fedele, nonostante i numeri non siano ovviamente esagerati. 

“Burning Desires”, il suo terzo disco, è uscito ad aprile: niente di nuovo sotto il sole, il solito Folk Rock anthemico e combattente, coi volumi sparati a mille, le acustiche ad addolcire una sezione ritmica lanciata a briglia sciolta, un’urgenza comunicativa e una cifra stilistica che condivide con gente come Brian Fallon, Chuck Ragan e Frank Turner. 



Normalmente gira con la band ma adesso si sta prendendo un mese di vacanza, libero da manager e agenzie. Ha organizzato in fretta e furia un giro per l’Europa, assieme al connazionale è amico Tim Van Doorn. Quattro settimane a macinare chilometri tra Spagna, Italia, Svizzera e Germania, a incontrare amici e a salire sul palco, sera dopo sera, ciascuno con la sua chitarra acustica, ciascuno con le sue canzoni e il suo bagaglio di esperienze. Ne hanno vissute parecchie e qualcuna l’hanno raccontata tra una canzone e l’altra, dall’aggressione da parte di un cavallo selvaggio alla morte sfiorata a causa di una nevicata improvvisa che aveva reso impraticabile una strada di montagna. “Abbiamo un po’ di dischi e magliette con noi – ha detto Tim tra le risate dei presenti – se ci comprate qualcosa a fine concerto, vi promettiamo che investiremo i soldi per comperare delle gomme da neve!”. 

Vantol ha un bel repertorio che pur non arrivando a toccare le vette dei migliori Gaslight Anthem, riesce comunque a coinvolgere e ad emozionare, con almeno tre o quattro brani di livello notevole. La scaletta presenta ovviamente un po’ di brani dell’ultimo disco come “Restless”, commovente ballata dedicata alla madre, “Let it Pour”, “Lost in the Unknown”, “Until the End”, decisamente azzeccata come apertura di concerto. Non mancano ovviamente gli episodi dai due lavori precedenti: da “Hands Full of Dust” ad “Apologies, I Have Some”, fino alla conclusiva “If We Go Down, We’ll Go Together”, che va un po’ intesa come il suo manifesto poetico. Il pezzo che riscuote però il maggior successo di tutta la serata è “Nothing”, tratto dall’esordio “Road Sweet Road” del 2010 ed effettivamente uno dei migliori del suo repertorio. Sarà che quando è venuto in città per la prima volta stava promuovendo proprio quel lavoro, sarà che possiede un ritornello che si fa cantare alla grande, fatto sta che il Ligera diventa una bolgia dove tutti urlano come pazzi, tanto che Tim, visibilmente emozionato da tale risposta, fa cantare pure una versione italiana del chorus, dopodiché la insegna addirittura in olandese (con discreti risultati, bisogna ammettere!). 

Al termine se ne vorrebbe andare ma lo richiamano a gran voce e non può sottrarsi. Abbandona microfoni e amplificatori, scende tra la folla e suona “What a Wonderful World” perché, dice: “Quando sono in tour e guardo le notizie mi deprimo, mi pento di averlo fatto. Ci sono un sacco di cose brutte nel mondo ma poi penso che ci siano anche tante cose che lo rendono meraviglioso. Per cui, quando sei depresso, quando ti sembra che tutto ti faccia schifo, concentrati sui piccoli dettagli e da lì trova la forza per ripartire.”. 

Prima di lui, Tim Van Doorn aveva convinto tutti con un set non particolarmente eclatante a livello di canzoni (Il suo secondo disco, “Until I Find Myself Lately”’è appena uscito) ma con una carica e una simpatia umana che hanno immediatamente conquistato i presenti, la maggior parte dei quali non lo conoscevano. Si potrebbe obiettare che un artista che ha bisogno di dialogare col pubblico tra una canzone e l’altra, raccontando delle sue canzoni e regalando divertenti aneddoti, non abbia un repertorio abbastanza potente da fare la differenza da solo. Probabilmente è così ma guardando il set di questo ragazzo sereno e sorridente ci siamo divertiti e abbiamo una volta di più compreso che la carica umana, per chi fa questo mestiere, non è un dettaglio trascurabile. 

È stata una bella serata, in definitiva, che ci ha rimesso di fronte a che cosa voglia dire suonare con cuore e passione, comunicarlo con una gioia sincera che, proprio perché è così, risulta immediatamente contagiosa. 

Un plauso ai ragazzi di Stage Diving che hanno reso possibile la cosa, con l’augurio che serate come queste possano ritornare ad essere la norma.