The Assassination of Julius Caesar” è uno dei dischi più belli dell’anno che sta per finire. Inutile star qui ad argomentarne il motivo, si sa che sulle classifiche ognuno ha i suoi gusti e che i criteri di giudizio passano sempre da una grossa componente soggettiva. 

Eppure la vera grandezza, quando ce l’hai davanti, la riconosci. E quando si parla di Ulver, l’aggettivo “grande” appare sempre parecchio riduttivo. Me li ricordo da adolescente, muovere i loro primi passi all’interno della scena Black Metal norvegese, quella che solo pochi anni prima era stata al centro di episodi di cronaca non propriamente piacevoli, tra chiese bruciate ed omicidi vari. 



Appartenevano a quel mondo ma allo stesso tempo ne erano estranei, superiori. Lo capivi anche solo attraversandoli di striscio, era chiaro anche a me che pure bazzicavo pochissimo quel genere, ricordando solo le recensioni e qualche ascolto distratto. 

Per cui nessun problema, nel ritrovarseli vent’anni dopo completamente mutati, approdati alle sponde dell’Electro Dark dopo una lunga ricerca che è passata dal Gothic all’Ambient, dal Trip Pop alla Techno, senza dimenticare il Metal, il Rock e la classica contemporanea (il disco “Messe I.X-VI.X” è di fatto un’unica composizione sinfonica). 



La si potrebbe scambiare per bulimia compulsiva, per ricerca spasmodica dettata da un disturbo di personalità; la verità è però che se si va a vedere quello che hanno fatto, se si ascolta un episodio dopo l’altro con pazienza e apertura mentale, ci si potrà vedere dentro molta più coesione e coerenza di quanto sarebbe lecito immaginare. 

Una band di gente che, semplicemente, ha deciso di non porsi limiti, di esprimere la propria voce utilizzando tutti i linguaggi disponibili. E questa scelta, negli anni, ha pagato: assieme agli inglesi Anathema, gli Ulver sono l’unica band proveniente dal mondo del Metal ad essere riuscita a conquistarsi un pubblico veramente  suo, a mutare orizzonte senza perdere l’identità, a suscitare entusiasmi senza essere costretta a rievocare il passato per far piacere ai fan della prima ora. 



Stasera arrivano nuovamente in Italia, nell’ottima cornice del Santeria Social Club, un locale milanese che negli ultimi due anni sta diventando un interessante punto di riferimento, in una città dove è sempre più difficile suonare dal vivo. 

In apertura c’è Stian Westerhus, eclettico chitarrista con un background Jazz ma con un raggio d’azione enorme, tanto da rischiare di perdercisi dentro.

Il suo non è un vero e proprio set di apertura, quanto una lunga introduzione che prepara l’ingresso dei norvegesi: sta sul lato sinistro del palco, solo, con la sua chitarra e qualche aiuto da parte di basi e campionamenti. La sua esibizione è fatta di vocalizzi ora acuti ora profondi, da una struttura armonica costantemente aperta, da un’evoluzione melodica che non lascia nessun punto di riferimento all’ascoltatore. Difficile dire se si tratti di canzoni vere e proprie o se, piuttosto, stiamo assistendo ad una lunga e visionaria improvvisazione. 

Ci sono dei momenti interessanti ma l’attitudine è troppo sperimentale, anche per un pubblico selezionato e attento come quello degli Ulver. Ciononostante, le suggestioni cosmiche e a tratti claustrofobiche evocate dal chitarrista invadono il locale e quello che resta nell’aria è soprattutto un vago senso di attesa. 

Improvvisamente, senza nessuno stacco, le percussioni furiose di “Nemoralia” si diffondono nell’aria ed abbiamo giusto il tempo di accorgerci che gli headliner della serata sono già sul palco. Le luci sono basse, bassissime, dei musicisti vediamo solo le sagome e anche con qualche fatica. Del resto loro sono così: hanno la coscienza di essere solo strumenti al servizio delle loro creazioni e fanno in modo che per loro parli la musica e i visual che costantemente accompagnano i loro show. Quelli di questo tour sono decisamente riusciti, consistenti in luci laser di vari colori ma dalla connotazione sempre piuttosto fredda, mentre sullo schermo posto alle loro spalle altri laser si modellavano in continuazione, evocando figure a volte astratte, a volte semplicemente suggestive, a volte con chiari rimandi alla simbologia occulta. 

Guardare i musicisti è risultato perfettamente inutile: quel che contava davvero era l’insieme, lasciarsi trascinare dalle sensazioni evocate, perdersi in territori oscuri dove la notte atmosferica coincide con quella dell’anima, dove lo stesso assassinio di Giulio Cesare evocato nel disco, diviene la metafora della fine di un’epoca, presente in sala attraverso l’atmosfera cupa e decadente dei brani suonati. 

La scaletta è fissa ad ogni data e non c’è nessuna concessione al vecchio repertorio perché per loro ogni spettacolo è un’opera a sé, da fluire complessivamente e dotata di senso compiuto, più che una normale carrellata di brani. 

Per cui a questo giro hanno deciso di suonare solo il nuovo disco e i tre brani dell’ep “Sic Transit Gloria Mundi”, uscito giusto un paio di giorni fa. 

Dark, Synth Pop, Electro Wave, in un’ideale incontro tra Depeche Mode e Sisters of Mercy. Strano che gli Ulver, dopo tanto peregrinare, siano arrivati qui. Ancora più strano vedere così tanta gente ballare e andare in estasi al ritmo di sonorità che, come ha giustamente osservato un amico a metà concerto, trent’anni fa erano appannaggio di una nicchia specifica di ascoltatori, mentre venivano schifati e sbeffeggiati dalla maggioranza. 

Eppure adesso siamo tutti qui, appiattiti ma nello stesso tempo facilitati da una comunicazione di massa che rende il passato accessibile e allo stesso tempo comprensibile. Si perdono le distensioni e tutto diventa fluido, è presto dire se sia un bene o un male, però.

Va da sé che quel che accade sul palco è comunque eccezionale. I quattro suonano benissimo, con una perfetta interazione tra analogico ed elettronica e si avvalgono della preziosa collaborazione di Westerhus, che ha suonato con loro in studio e li accompagna quindi anche sul palco, senza mollarli un istante e  assumendo su di sé tutto il lavoro chitarristico. 

La voce di Kristoffer Rygg, da sempre marchio di fabbrica di questa band, è potente e magnetica al tempo stesso e pur al netto di qualche imprecisione, costituisce un elemento di grande fascino, unitamente al carisma del cantante, col cappuccio della felpa perennemente calato in testa, immobile e solenne al centro del palco. 

Difficile dire quali siano stati i momenti migliori, vista l’alta qualità e l’omogeneità di quello che ci siamo trovati ad ascoltare. 

Bisogna comunque menzionare l’oscuro pulsare di “1969”, l’epica tragicità di “So Falls The World”, le solenni orchestrazioni di “Echo Chamber”; e poi, nel finale, una “Coming Home” dalla coda dilatata fino all’estremo, una lunghissima jam al confine tra l’House e il Dark più oppressivo, un incedere ritmico incombente e sempre uguale, con la chitarra e i Synth a disegnare paesaggi sempre cangianti. Un vero e proprio viaggio lisergico, possibile anche senza l’aiuto di droghe. 

E per finire, un’incantevole versione di “The Power of Love” dei Frankie Goes to Hollywood, a spiazzare e a confondere le idee di tutti coloro che ragionano a compartimenti stagni. La verità è che, da ragazzini, i quattro norvegesi amavano questa canzone. E quello che si ama lo portiamo sempre in viaggio con noi, non importa quando e se ritornerà fuori.