Metti una sera in cui un tempo lontano e indimenticabile si rende candidamente smemorato, per condurre il jazz-rock dei grandi nei giardini sconfinati, eroici e ricolmi delle melodie siderali del progressive rock più attento ad assecondare struttura e canoni della canzone sia pure elaborata e piena di percorsi accidentati. Così il bassista/compositore e polistrumentista Lorenzo Feliciati (che ha incrociato stili e canoni di Weather Report, Zappa e King Crimson nei suoi vari progetti solisti o in gruppo) ha voluto dare un’impronta particolare ed emancipata al suo terzo lavoro solista “Elevator Man”. Per questo ha giocato in senso manipolatorio sullo stile del suo maestro di riferimento – Jaco Pastorius – portando la sfida ai livelli di un disco che prevede un continuo avvicendamento di formazione brano dopo brano.
Quel basso nervoso e parlante che delinea un vero e proprio concetto di suono, stende il tappeto all’intro della title track che rilascia sottofondi alla New Gold Dream, per poi opzionare un riff marziale in quota UK che percorre toni gravi prima con le sole tastiere poi con l’iniezione dark della sezione fiati di Pierluigi Bastioli, Duilio Ingrosso e Stan Adams (con una prevalenza di sax baritoni e tromboni bassi). E’ ancora lo stesso terzetto fiatistico a distinguersi nella successiva The Brick, mentre quello che cambia è l’ossatura base del gruppo d’accompagnamento. Qui il suono si attesta su melodie più fugaci e sospese con un solo di Roy Powell a un hohner clavinet distorto alla maniera di una chitarra elettrica.
Ad un inizio piuttosto avventuroso, fa da contraltare un prosieguo più in linea con il jazz delle proprie origini artistiche, segnatamente una 14 Stones dove si imbuca Pat Mastelotto (uno dei session-man più presenzialisti di sempre, nonché compagno d’avventure nei Naked Truth) a tirare le sue benedizioni quasi pugilistiche su un tessuto di fiati non a caso più muscoloso e nerboruto. E una Black Book, Red Letters che riporta in territori ancor più squisitamente jazz tra i minimalismi della tromba di Claudio Corvini e il più austero e raccolto suono del contrabbasso di Feliciati. In Three Women, il titolare commuta la morbidezza del fretless in movenze ritmiche rocciose per un riff prog sul quale si avvicendano i solisti di turno. Così come Unchained Houdini porta in primo piano il tipico ritmo sciolto e agile della fusion più classica, con un Feliciati che procede autarchico con il solo ausilio del drumming di Davide Pettirossi. Una piacevole The Third Door, con il contributo di DJ Skizo e tanto di set, arriva persino a toccare sonorità ambient-lounge.
L’anima jazz-proggie del disco torna a liberarsi in un finale aperto da una S.O.S. che vede rispuntare l’eloquio pastoriusiano in controtempo con l’elettrica, e se possibile ancor più con i podismi strumentali di una Thief Like Me che schiera la chitarra funambolica di Marco Sfogli insieme alle turbolenze di Feliciati che doppia il basso con i gigantismi modali del moog basso.
Con la seconda presenza di un ottimo Davide Savarese alla batteria nel sound design in sospensione di U Turn in Falmouth, si chiude un disco strumentale di classe, buona fattura e ragguardevoli ospitate (troppe per essere elencate da cima a fondo), che vanno a comporre un piccolo ma importante indirizzario di quello che rappresenta il meglio del circondario sessionistico in ambito nazionale e non. In ventitré è più facile reggere lo sforzo di questo inedito “ascensore musicale”.