Mauro Porro (www.mauroporro.it) è un jazzista polistrumentista, compositore e arrangiatore, bandleader perfezionista, filologo musicale, nonché collezionista e restauratore di strumenti d’epoca.

La stampa inglese lo ha definito “uno dei più promettenti e brillanti giovani talenti del jazz tradizionale in Europa”.



Con i suoi Chicaco Stompers (www.chicagostompers.it) si è esibito in molte tra i più prestigiose rassegne jazz del Vecchio Continente; inoltre ha all’attivo, parlando di carriera solista, collaborazioni con i più emeriti rappresentanti del jazz nostrano (Lino Patruno, Paolo Tomelleri, Gianni Sanjust, Sandro Gibellini, Christian Meyer…).



Dal 2011 ha partecipato a più riprese – unico italiano – all’International Classic Jazz Party: il più grande raduno mondiale di esponenti dell’hot jazz.

In occasione del 15° compleano dei Chicago Stompers (festa che si terrà il 2 dicembre presso il “Social Club” di Buccinasco, MI) ha scelto di aprirmi le porte del suo studio e di fare una piacevolissima chiacchierata col sottoscritto…

 

Che tipo di esperienza è vedere i Chicago Stompers dal vivo? Che effetto vuoi ottenere?

Vorrei che uno, che non sa nulla di questo tipo di musica, vedendoci salire su un palco in cui ogni oggetto appartiene a un’altra epoca, possa avere una visione chiara di ciò che sono stati gli anni ’20. Spesso purtroppo, in tanti film questo periodo meraviglioso è stato ricreato in modo dozzinale, pesante, sbagliato storicamente.  Sicuramente questa attenzione al dettaglio, curato con precisione ed esattezza filologica, è un segno d’amore a ciò che sto facendo. Certo, è anche legato ad una certa professionalità nell’agire, ma è più di questo. Spesso capita che qualcosa piaccia a me e, nel corso degli anni, io riesca a far appassionare anche chi mi sta vicino. Il caso dei Chicago Stompers è emblematico: essendo un’orchestra di amici, abbiamo potuto sperimentare molto fin dall’inizio, cosa che normalmente tra professionisti non si può fare. Vedendo me che collezionavo strumenti d’epoca è nata anche in loro la voglia di procurarseli (perché comunque hanno il loro fascino, c’è poco da fare). Da lì un’attenzione a ogni dettaglio (dagli strumenti ai vestiti, agli accessori…) che davvero, alla lunga, è stata in grado di fare la differenza a livello qualitativo.



Vedo che questa cosa piace. Girate spesso…

Forse qualcosa si sta muovendo ultimamente, ma la crisi ha colpito in maniera pesante anche il nostro mondo. Diciamo che “giravamo” di più prima. Resta vero che se sei bravo e riesci a vendere un prodotto culturale ben fatto, curato, la cosa affascina e colpisce e allora tutto si muove di conseguenza. All’estero stanno ricominciando a investire su questo.

In Italia invece…

Ci sono delle belle realtà ben organizzate ma son troppo poche; ci sono pochi soldi, girano sempre le stesse cose e il jazz classico non lo conosce nessuno, se non quello che si sente di sottofondo nei film di Stanlio e Ollio e nei cartoni animati. In Olanda invece, per esempio, i bambini sono abituati a sentire dalle scuole elementari la Dutch Swing College Band, che è una delle più importanti bande del revival di jazz classico in Europa. È una questione di educazione musicale: in Italia manca totalmente ed è uno scempio, contando che siamo la patria del bel canto. Va detto che il jazz in Italia è stato notevolmente svantaggiato dal Ventennio fascista, in cui vi è stato un embargo totale su tutto ciò che veniva dagli Stati Uniti (anche se Romano Mussolini, il figlio del Duce, era un jazzista e in casa sua lo si suonava eccome!). Se cerchi i 78 giri belli da noi non ne trovi, in Inghilterra invece…

Quando vedo tanti adolescenti senza passioni che sono in giro a perdere tempo… Io e i miei amici, da ragazzi, abbiamo ripreso in mano la banda di Gerenzano. Avevamo dei modem patetici, quando è arrivato internet, e i dischi non si trovavano: diventavamo pazzi per trovare quelli della Original Dixieland Jass Band, ma quando finalmente li avevamo tra le mani piangevamo di gioia! Oggi, paradossalmente, che puoi avere tutto subito, nessuno si muove più.

Mi sorge spontanea una domanda: ma perché hai scelto di proporre proprio il jazz anni ’20?

Prima ascoltavo solo musica classica. Ho partecipato a un concorso dell’oratorio, da bambino, per giovani talenti e ho eseguito un brano al pianoforte. Arrivai secondo: un mio coetaneo aveva eseguito “The Entertainer”. Non avevo mai sentito nulla di simile. Corsi dal mio maestro e lui mi disse: “questa cosa si chiama ragtime”. Ironia della sorte, il mio coetaneo è diventato un grande pianista classico, mentre io mi sono evoluto, passando per “Maple Leaf Rag”, “Bethena” eccetera ho scoperto il ragtime e da lì il passaggio al jazz è stato immediato. Credo che tutto sia nato lì.

Tu riarmonizzi delle composizioni che originariamente erano pensate per orchestre di più elementi…

Molto spesso succede questo, sì. Devo riadattare i pezzi per line-up più ridotte.

Ed eseguite anche brani originali composti da te?

No, pezzi nostri non ne suoniamo. Ho scritto un paio di brani nella mia carriera, ma ci son stati talmente tanti compositori insuperabili che bastano quelli. Inoltre nel jazz l’improvvisazione ti permette di creare melodie nuove, ma su accordi già esistenti di composizioni altrui. Posso dire con fierezza che faccio composizioni originali facendo “cover” (ride).

Parlando della tua carriera solista, quali sono state le collaborazioni che ricordi con più gratitudine?

Ne ricordo mille o duemila! Quando uno è piccolo fa una serie di esperienze molto intense in ogni momento, perché magari ti capita di essere inserito in un contesto in cui sei il più giovane e fai delle cose che a volte quelli che hanno quarant’anni più di te non han mai fatto, solo perché tu sei dedito esclusivamente alla musica. Di esperienze ne ho vissute tantissime! Forse quelle che mi han più colpito sono state quelle che mi han visto suonare coi grandi del jazz classico italiani, europei e americani che mi hanno raccontato gli aneddoti sulle leggende del passato. Ricordo, ad esempio, che in Olanda facevamo colazione con Herbert Christ, trombettista di Francoforte, con cui suonavamo spesso con la Milano Jazz Gang (in cui sono entrato a 16 anni e che consideravo l’apice della mia carriera, vista la storia quarantennale di questa formazione), e lui ci raccontava di Benny Carter con cui aveva suonato, di Preston Jackson, il trombonista dell’orchestra di Louis Amstrong, che a sua volta gli aveva raccontato di Jelly Roll Morton!

Quelle son state le esperienze più belle, oltre che alle esperienze di palco fatte dai 16 ai 19 anni, soprattutto all’estero. Ah, quasi dimenticavo Giorgio Alberti, che purtroppo è tragicamente scomparso di recente in un incidente d’auto! Lui è stato il primo a chiamarmi nel giro grosso. Aveva inciso con Bud Freeman, Joe Venuti… e tanti grandi degli anni ’20. Prendeva il treno da Varese, veniva da me a suonare e mi raccontava una marea di aneddoti. Era considerato un buon imitatore di Bix Beiderbecke.

Ah ecco come si pronuncia Beiderbecke (rido)!

Eh sì, Bix è imprescindibile nella formazione di tutti quelli che amano questa musica. Io conosco tutte le sue composizioni a memoria e non è un’esagerazione, sono circa 220 pezzi. Li ho ascoltati talmente tante volte… l’ascolto è fondamentale nel jazz: è quello il canale per imparare questo linguaggio.

A proposito di questo, se dovessi stilare una discografia essenziale per chi vuole iniziare ad ascoltare jazz classico, cosa consiglieresti?

Allora, innanzitutto consiglierei l’ascolto di un paio di pezzi dell’Original Dixieland Jass Band che, esattamente cento anni fa, incisero quello che da molti è considerato il primo disco jazz della storia. Poi sicuramente Louis Armstrong degli anni ’20 e ’30, Bix Beiderbecke, King Oliver e poi a me, personalmente, piace di più la musica bianca degli anni ’20, perché rispetto alla musica dei neri aveva degli arrangiamenti più sofisticati.

Ecco, mi spiace, a proposito dei neri che, di reazione al fatto che i bianchi hanno di fatto rubato loro la loro musica, abbiano iniziato a fare cose sempre più complicate, di rottura, per riaffermare la loro proprietà sul genere. È un peccato, perché se gli Americani fossero stati più bravi a integrare la parte nera nella loro cultura non avrebbero avuto una simile diaspora di jazzisti, che in Europa, invece, sono stati trattati da star.

Progetti per il futuro?

Ne ho sempre una marea! Mi hai beccato che stavo scrivendo degli arrangiamenti nuovi. Vorrei formare un gruppo dedicato alla musica swing degli anni ‘30 per portarla in giro in tutte le scuole di danza in cui sta tornando di moda questo genere. Ho in mente un progetto dedicato sempre al jazz anni ’20. Vorrei incidere un disco con un amico violinista… diciamo che in questo periodo non sto facendo molto l’orchestrale ma più il solista da camera (un po’ per necessità, un  po’ per scelta…). Sono comunque contento di entrambe le posizioni

(Stefano De Palma)