Sembra quasi di vederlo, seduto nella sua stanza d’hotel, a Dayton, la sera del 21 maggio 1980, dopo l’ultimo concerto del tour. Karen Hughes, che lo ha già intervistato poco tempo prima, ed al quale aveva raccontato che “Gesù aveva messo la sua mano su di me, è stato un fatto fisico”, è di nuovo davanti a lui. Prova a spiegarsi, sembra quasi che il suo cuore abbia trovato un luogo in cui riposare. “Stai parlando della tua vita – dice – non di una parte di essa, di una qualche ora di un certo giorno. Stai dicendo che stai facendo di Cristo il Signore e il Maestro della tua vita, il Re della tua esistenza. E stai parlando di Cristo risorto, non di un uomo che aveva un mucchietto di buone idee e che è morto con esse; stai parlando di Cristo risorto, che è il Signore della tua vita”.
In sette mesi di concerti, Bob Dylan ha combattuto mille battaglie. Ha cantato le sue nuove canzoni, si è rifiutato di eseguire le vecchie. Qualcuno gli ha pure messo davanti uno striscione, con scritto “Gesù ama le tue vecchie canzoni”, ma non capisce che non ha mai smesso di amarle neanche lui. Davanti a Pat Crosby, della KDKA TV, lo ha detto chiaramente: “Oh yeah, I love that stuff. Amo il mio vecchio materiale. Lo guardo, lo ascolto e sono felice di averlo scritto ed eseguito”.
Il fatto è che, adesso, lui sta facendo altro. Testimone di un incontro, vuole renderne partecipi gli altri. E’ aggrappato ad una solida roccia ed è per questo che, prima di Solid Rock, a metà concerto, si rivolge al suo pubblico, in modo sempre più accorato, fino a che le poche frasi dei primi concerti diventano, sera dopo sera, veri e propri sermoni. Solo che molti non lo accettano: “che delusione, volevo sentire del rock’n’roll”, “se avessi voluto sentire una predica, me ne sarei andato in chiesa”, “tutti hanno il diritto di cambiare, ma sono molto delusa”. E così gridano, protestano, se ne vanno a metà dello show. Solo alcuni riescono a liberarsi dai pregiudizi e ad accorgersi, tra l’altro, che Dylan e la sua band stanno facendo anche grande musica.
Trouble No More, il film documentario diretto da Jennifer Lebeau, proiettato lo scorso mese di ottobre al New York Film Festival ed ora disponibile per tutti, all’interno dell’omonimo cofanetto – tredicesima puntata delle Bootleg Series, che, con altri otto cd audio documenta in modo esauriente il periodo della carriera di Bob Dylan che va dal 1979 al 1981 – prova a raccontare tutto questo. Riprese inedite dal vivo sono intervallate ai sermoni di un predicatore, magistralmente interpretato dall’attore Michael Shannon, così che lo spettatore passa continuamente da una canzone di Bob alle parole appassionate di un pastore, il cui volto è illuminato dalla luce che passa attraverso le vetrate di una chiesa.
Non sono i veri sermoni che fece Dylan, quelli che ascoltiamo nel film: i dialoghi sono stati scritti da Luc Sante, sulla base dei testi di prediche svolte in alcune chiese protestanti americane dagli anni venti agli anni sessanta, ma poco importa. Quello che viene a crearsi è un vero e proprio climax ed ottiene l’effetto di calarci nell’atmosfera di quei concerti di quasi quarant’anni fa. Nei dialoghi del predicatore si parla d’ipocrisia e di giustizia, di gola e di virtù, di prudenza e di temperanza. Ed ogni canzone si aggancia, in qualche modo, al testo del sermone che la precede. “La grazia di Dio lavora sulla nostra anima imperfetta e se glielo permettiamo, Dio ci prenderà e ci raddrizzerà”, dice il pastore? Dylan, allora, canta la sua Slow Train: “devi lasciare i tuoi casini e raddrizzarti, c’è un lento, lento treno che spunta dalla curva”. “Dio vede al di là delle buone maniere e delle belle parole, non ci si può nascondere da Lui”? Bob si siede al piano, ed attacca l’intensissima When He Returns: “fino a quando potrete rinnegare ciò che è vero? Fino a quando odierete voi stessi per la debolezza che celate? Di qualunque progetto terreno, Lui non si cura, ha i suoi piani, farà giustizia dove è torto, quando tornerà”.
Lungo tutto il film possiamo cogliere l’intensità straordinaria con cui Dylan cantava in quel periodo. La sua voce, mai in grado di salire così in alto; le sue mani, mai aggrappate con tanta passione alla tastiera di un pianoforte; quelle stesse mani che, di tanto in tanto, abbandonano la chitarra per reggere un microfono da abbracciare ad occhi chiusi. E, dietro a lui, un gruppo di musicisti eccezionali: la chitarra di Fred Tackett che ricama ogni melodia, il basso pulsante di Tim Drummond e la batteria di Jim Keltner come motori di un treno, le tastiere di Spooner Oldham e le coriste – Clydie King, Mona Lisa Young, Mary Elizabeth Bridges, Gwen Evans, Regina McCrary – che producono un gospel rock che, in quanto ad energia, non ha nulla da invidiare ad un’incendiaria Like A Rolling Stone degli anni sessanta.
Di un film non bisognerebbe mai raccontare la trama, e non lo faremo neppure qui, limitandoci a dire che l’ultimo sermone del pastore e le canzoni a cui è accostato – la splendida Pressing On e Abraham, Martin and John, con solo Dylan, Clydie King e la tastiera di un pianoforte, valgono da sole tutto il film. Ma a chi scrive, in quelle scene finali, sembra di rivedere quel volto di Dylan, immaginato in quell’intervista di Hughes nella primavera del 1980. Bob alla ricerca di una pace con se stesso, calato fino in fondo dentro il proprio cammino, quello che, come disse tanto tempo dopo, portava verso casa perché era nato lontano dal luogo dove sarebbe dovuto nascere. E forse aveva ragione anche Greil Marcus, quando crocifisse Dylan dalle colonne del New West, nel settembre del 1979, scrivendo che “non ci si ferma mai, non si sostiene mai, come fa Dylan in tutto Slow Train, che la redenzione è una cosa semplice”.
No, la redenzione, non è mai faccenda semplice, lo sappiamo tutti, e non sarà certo un concerto del Gospel Tour di Dylan a rendere tutto più lineare. Ma Every Grain Of Sand, versione inedita, solo voce e tastiere, che scorre lungo i titoli di coda del film, ci consegna, forse, l’unica dolce certezza che ci rimane in mano: “in the fury of the moment / I can see the Master’s hand / in every leaf that tremble / in every grain of sand”. “Nella furia dell’istante, posso scorgere la mano del Maestro, in ogni foglia che trema, in ogni granello di sabbia”: non importa quanto lunga e travagliata è la strada, ogni capello del capo è contato e c’è un Amore più grande che abbraccia ogni istante. In fondo, l’ha detto anche Dylan, molti anni più tardi, che quando si ha poco altro, basta poca fede per fare tanta strada. Perché siamo davvero povera cosa, ma ci basta una domanda e una strada. Per non fermarci mai.